Orlando, Londra, Parigi e altre città, anche italiane, meno conosciute portano i segni di quella feroce banalità del male che accompagna il cammino dell’uomo.
L’elenco delle tragedie diventa ogni giorno più lungo, diventa un grido d’aiuto e nello stesso tempo un appello a non dimenticare, a non rimuovere dalla memoria.
L’assassinio di una parlamentare a Londra, la strage di persone a Orlando, l’uccisione di due poliziotti accanto al loro figlio di tre anni a Parigi, la violenza dell’uomo contro la donna che non condivide più il percorso iniziato insieme, rilanciano interrogativi sulla conseguenza che hanno o possono avere le parole quando sono impregnate di disprezzo e di voglia di annientare l’altro.
Richiamare le conseguenze delle parole malate non significa dare per scontati i collegamenti tra la violenza orale e le reazioni di menti disturbate che hanno seminato morte e disperazione anche in questi giorni.
Tuttavia gli interrogativi si affollano soprattutto nell’osservare che la banalità del male è sottilmente penetrata nel linguaggio, distruggendo relazioni, interrompendo comunicazioni, cancellando volti.
Si potrebbe partire, come esempio, dallo scenario politico nazionale ed extranazionale per tentare una riflessione.
E’ ammissibile la giustificazione dei toni scomposti e a tratti violenti in un confronto politico pur infiammato? E’ accettabile dire che i toni fuori misura sono prevedibili, comprensibili in un clima teso e quindi da non censurare?
In verità nel tempo della massima tensione di un confronto, politico e non politico, pubblico e privato, ci si aspetterebbe da ogni persona la prova della sua maturità, della sua capacità di tenere viva la dignità della parola.
Il tempo di un confronto acceso è sempre breve ma è un tempo sufficientemente lungo per scatenare atteggiamenti di intolleranza, di disprezzo e di odio.
E questo è avvenuto e avviene anche nel nostro Paese, nella quotidianità del vivere con gli altri.
Sono ben visibili gli effetti della parola malata, dalla parola che ha perso la capacità di comunicare, di dialogare, di rilevare le differenze di pensiero senza ridurle a motivo di scontro.
Da molto tempo le parole malate, come puntualmente racconta la cronaca, hanno contaminato gli ambiti di vita nei quali si muovono, in particolare la famiglia, la società la politica, lo sport.
Hanno trasmesso e trasmettono il virus del rancore.
In una società rancorosa anche la politica viene meno al suo ruolo di “maestra” e al suo essere “scuola” di responsabilità sociale e civica.
Perde la fondamentale dimensione educativa e pedagogica quando, in un tempo di trasformazioni e complessità, costruisce facilmente schieramenti e muri contro qualcuno e difficilmente suscita pensieri e progetti per la crescita della persona e della città.
La politica è una parola più malata di altre anche perché è la sintesi di altre. Si può guarire cominciando con il non declinarla con il verbo “fare”, che introduce un professionismo distorto, ma riconsegnando contenuto e vigore all’espressione “essere nella politica”.
E’ una terapia lunga ma forse è l’unica che, con un sussulto della coscienza di chi è al capezzale, può portare il malato alla guarigione.
Non basteranno gli esperti e gli analisti. Più che mai urge la presenza delle nuove generazioni pensanti, prime vittime degli effetti diseducativi delle parole malate.
Se a restituire significato alla parola “politica” non torneranno i giovani e soprattutto non tornerà un’alleanza intellettuale e morale tra generazioni la politica continuerà ad esprimersi con parole malate. E la società non sarà aiutata a uscire dal rancore.
L’impresa non è facile ma oggi ci sono segni, forse ancora un po’ confusi, che autorizzano a sperare nella guarigione delle parole malate.
Paolo Bustaffa