La commozione e l’emozione sono sentimenti che meritano grande rispetto, devono però lasciare il passo al pensiero perché non svaniscano nel nulla o rimangano in sterile attesa di altre emozioni e commozioni.
Il 18 luglio l’abbraccio tra Sergio Mattarella e Manfredi Borsellino ha toccato i diversi tasti della sensibilità di un popolo, segnando un passaggio alto nel percorso della sua coscienza.
I traduttori in politichese hanno diffuso le loro interpretazioni del gesto e doverosamente se n’è preso atto.
Ma in quell’abbraccio ci sono due storie di libertà, di legalità e di dignità che chiedono un supplemento di lettura.
Non può sfuggire, infatti, la sofferenza di due uomini che hanno sulla pelle della loro vita le ferite della criminalità mafiosa. Segni che sono diventati impegno istituzionale, mai ostentato ma sempre inflessibile, nella lotta contro un cancro che continua a contaminare il corpo di un Paese che appare culturalmente ancora debole di fronte alla sottile infiltrazione.
La cronaca riferisce di un diffondersi tentacolare che tanto più avanza quanto più indietreggiano, anche sul territorio, il pensare e l’agire sociale e politico.
Le analisi non mancano e neppure i gridi di allarme e di denuncia.
C’è chi reagisce: sono soprattutto i giovani ad alzare la testa.
Delle nuove generazioni la mafia ha paura perché sa che si tratta di avversari puliti, non ricattabili, non minacciabili.
L’unica possibilità per fermarle è quella di non farle parlare, di non lasciar raccontare quello che stanno facendo anche durante questi mesi estivi nei campi di Libera, nelle terre confiscate, nei luoghi della formazione della coscienza a incominciare dalla scuola.
La strategia mafiosa non cambia: isolare l’avversario per abbatterlo più facilmente. Allora tocca ai media non lasciare soli i giovani. A loro l’appello a non rischiare una connivenza con la mafia lasciando fuori pagina o fuori campo percorsi di responsabilità, d’impegno, di pensiero.
Ai bordi della cronaca ci si accorge, invece, di vuoti mediatici su queste esperienze. Silenzi che, anche se non sempre voluti, sono a sicuro vantaggio della mafia che ben conosce la strategia della comunicazione.
Sa bene la mafia che la notizia di un arresto di un malavitoso rimane nel cerchio della cronaca nera e non ha conseguenze irrimediabili, mentre il racconto di esperienze di legalità vissute da migliaia di giovani in diversi luoghi d’Italia è una grave minaccia. La mafia sa che insistere sull’abbraccio del figlio di Paolo Borsellino con il fratello di Sante Mattarella è pericoloso perché non è un gesto formale.
In quell’abbraccio ci sono, infatti, i giovani che hanno ascoltato e ascoltano uomini e donne che la mafia non la temono, la combattono. Uomini e donne che hanno pagato con la vita la loro scelta di legalità e di giustizia. In quell’abbraccio c’è il segno di una speranza non effimera che la mafia avrebbe voluto e vorrebbe spegnere perché è assai più pesante di una retata.
È il momento dei media: tenere alta la guardia di fronte alla mafia significa raccontare ancor più le esperienze e i pensieri dei giovani che crescono nella cultura della legalità e della dignità, significa dedicare a queste notizie almeno lo stesso spazio che si riserva a quelle degli arresti eccellenti.
La mafia teme questi racconti perché offrono la prova che il popolo dei giovani è dalla parte di istituzioni e leggi che sono per la legalità, la libertà, la giustizia.
I giovani, dal canto loro, sanno che quanti hanno combattuto e combattono la mafia sono uomini e donne con radici culturali, etiche e spirituali rese vive da quelle esperienze che essi stessi stanno vivendo oggi. Sanno che la forza per recidere i tentacoli della mafia viene da queste radici.
Paolo Bustaffa