“C’è ancora qualcuno in Italia che ha fiducia del futuro”: fine del titolo. “È il popolo interista…”: inizio del sottotitolo. Segue l’articolo dove tra l’altro si legge: “Nel segreto del proprio cuore ogni tifoso neroazzurro, un attimo prima che l’arbitro inglese Howard Webb sul prato dello stadio di Berlino fischiasse l’inizio della partita Bayern-Inter valida per l’assegnazione della Champions League ha rivolto al cielo la preghiera ‘Dio ti prego: facci vincere la coppa! In cambio non ti chiedo più vittorie per i prossimi dieci anni’”. Correva l’anno 2010 e di fronte alla vittoria ecco l’esclamazione del simpatico autore della nota: “Dio ha mantenuto la parola”. Ma cosa avranno esclamato i tifosi del Bayern qualora avessero “rivolto al cielo” la stessa preghiera prima di quella partita da cui uscirono sconfitti?
Difficile rispondere. Anche perché, a quanto pare, a Dio piace stare con tutte le squadre di calcio, e non solo, quando il gioco esprime la voglia e la bellezza del gareggiare con lealtà coinvolgendo persone e famiglie in un pomeriggio di serenità, anche se rumorosa e variopinta.
Dalla nota, posta in prima pagina accanto alle grandi notizie, vengono alcuni segnali sui quali, dopo aver scherzato un poco, è bello riflettere senza sconfinamenti e appesantimenti.
Che il popolo interista sia rimasto l’unico popolo ad avere fiducia nel futuro è un’affermazione da leggere guardando oltre la stessa affermazione. Non è comunque una battuta fuori dalle righe perché, allargandosi a tutto il mondo sportivo, rimanda alle folle che negli stadi o tramite i media seguono questo spettacolo con un rapporto così intenso da essere definito “fede”.
Qualche domanda è quindi naturale se il “futuro”, la “fiducia”, la “speranza” crescono o diminuiscono davanti alla rete in cui il pallone entra.
A volte, purtroppo, appaiono negli stadi striscioni a dire che con il pallone corre anche il contrario della speranza, della fiducia e del futuro.
Ma il simpatico commentatore, riferendosi a un’antica sconfitta e a un’antica vittoria, scrive: “Come sempre ai tifosi interisti, i quali conoscono l’angoscia profonda della disperazione, il 5 maggio 2002, e l’estasi mistica, il 22 maggio 2010, non rimane che la preghiera”.
Parole impegnative per uno stadio, per una partita di calcio, per una tifoseria, per le competizioni che verranno.
Parole che, senza esagerazioni, sollevano alcune domande sul significato di quella che da tempo viene interpretata come “religiosità calcistica”.
Sui campi di calcio, e sui rispettivi spalti, da tempo ricorrono, termini e gesti “religiosi” quali fede, preghiera, mistica, segni di croce, inginocchiamenti, invocazioni. E i rispettivi contrari.
La partita sui significati autentici delle parole e dei gesti è sempre aperta.
Tra le altre, anche per merito del simpatico commentatore, si ripresenta una domanda: ma Dio in che squadra gioca?
In quale ruolo? Con quale numero sulle spalle?
Sembra di vederlo cambiare continuamente ruolo. Perfino lo si vede imprevisto e imprevedibile autore di autogol.
A chi è ai bordi della cronaca questo Dio che corre come un monello incorreggibile da una squadra all’altra cambiando velocissimamente maglia, numero e posizione, piace immensamente.
Alla fine partita lo si immagina in un angolo impensato, pronto a sorprendere con un sorriso chi lo pregava, prima e durante la partita. Non sempre dopo. Forse solo per dire che lui non ha una squadra del cuore. Lui sa solo cos’è il cuore dell’uomo. E così, a modo suo, invita al simpatico commentatore, i calciatori e i tifosi ad alzare lo sguardo oltre la rete.
Paolo Bustaffa