Ci sono dei vuoti di memoria e di conoscenza nell’informazione, nell’analisi e nel confronto sulle origini delle immigrazioni forzate che vedono bambini, donne, uomini e famiglie lasciare Paesi sconvolti dall’ingiustizia, dalla guerra, dal terrore.
Ci sono persone dimenticate ma che, da molti anni, condividono la sofferenza di popoli ai quali è stata rubata la dignità. Persone che si sono fatte e si fanno spesso portavoce delle domande di giustizia.
Con i loro volti e le loro opere hanno aperto sentieri di speranza in terre dominate dalla paura e dall’angoscia.
Da Paesi dilaniati dall’egoismo del potere e del mercato hanno anche trasmesso alle loro comunità di partenza in Italia e in Europa la conoscenza di culture e di storie di popoli lontani con il desiderio di far cadere i muri della diffidenza, dell’indifferenza e del rifiuto.
Partiti come dono di “comunità pensanti” più di altri possono prendere la parola, anche a nome di una folla in fuga, per scuotere la coscienza di chi non si impegna più di tanto sul piano politico e su quello culturale per costruire un’alternativa di solidarietà al rischio di uno scontro sociale tra poveri sul territorio europeo.
Queste persone, ignorate dai più, hanno costruito e diretto ospedali, scuole, cooperative, iniziative sociali e culturali. Non hanno atteso che si muovessero le istituzioni internazionali anche se sempre le hanno sollecitate a vincere l’inerzia politica. Hanno subito preso la parola per amore di popoli privati dei loro diritti e spesso hanno pagato questa scelta con la morte o con l’incomprensione.
Queste persone hanno nome, cognome e cittadinanza italiana ed europea: sono i missionari. La loro testimonianza è posta al centro della riflessione in questo mese di ottobre.
Certamente il loro primo compito è stato ed è l’annuncio del Vangelo ma in questo compito è risuonato e risuona quel pensiero che papa Francesco ha posto al centro della Evangelii gaudium: “Ora vorrei condividere le mie preoccupazioni a proposito della dimensione sociale dell’evangelizzazione precisamente perché, se questa non viene debitamente esplicitata, si corre sempre il rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della missione evangelizzatrice”.
Un pensiero, risuonato nel viaggio apostolico a Cuba e negli Usa, che introduce un punto fermo nel confronto sulle migrazioni forzate e sugli aiuti ai Paesi poveri: un punto fermo che tocca la coscienza dei cristiani e di quanti, pur non dicendosi tali, hanno a cuore la giustizia e la pace.
Ecco perché, ai bordi della cronaca, il messaggio dei missionari che hanno lasciato le loro città per abitare le periferie nel mondo suona come un giudizio amaro e anche come un appello a guardare con occhi nuovi quanto è accaduto e sta accadendo nei mari e sulle strade di confine in Europa e in America.
Non si tratta, nel complesso e acceso confronto sul fenomeno immigratorio, di forzare una testimonianza come è quella missionaria. Si tratta di non dimenticarla o di sottovalutarla.
Si tratta di fare di questo mese di ottobre dedicato a persone ignorate e dimenticate che si chiamano missionari un’occasione per aggiungere un supplemento di umanità nelle analisi, nelle valutazioni, nelle proposte.
Sarà una piccola cosa ma certe piccole cose sono preziose e possono aiutare l’opinione pubblica a ritrovare e riamare la propria responsabilità nella costruzione di ponti e nell’abbattimento di muri.
Ci sono persone dimenticate ma che, da molti anni, condividono la sofferenza di popoli ai quali è stata rubata la dignità. Persone che si sono fatte e si fanno spesso portavoce delle domande di giustizia.
Con i loro volti e le loro opere hanno aperto sentieri di speranza in terre dominate dalla paura e dall’angoscia.
Da Paesi dilaniati dall’egoismo del potere e del mercato hanno anche trasmesso alle loro comunità di partenza in Italia e in Europa la conoscenza di culture e di storie di popoli lontani con il desiderio di far cadere i muri della diffidenza, dell’indifferenza e del rifiuto.
Partiti come dono di “comunità pensanti” più di altri possono prendere la parola, anche a nome di una folla in fuga, per scuotere la coscienza di chi non si impegna più di tanto sul piano politico e su quello culturale per costruire un’alternativa di solidarietà al rischio di uno scontro sociale tra poveri sul territorio europeo.
Queste persone, ignorate dai più, hanno costruito e diretto ospedali, scuole, cooperative, iniziative sociali e culturali. Non hanno atteso che si muovessero le istituzioni internazionali anche se sempre le hanno sollecitate a vincere l’inerzia politica. Hanno subito preso la parola per amore di popoli privati dei loro diritti e spesso hanno pagato questa scelta con la morte o con l’incomprensione.
Queste persone hanno nome, cognome e cittadinanza italiana ed europea: sono i missionari. La loro testimonianza è posta al centro della riflessione in questo mese di ottobre.
Certamente il loro primo compito è stato ed è l’annuncio del Vangelo ma in questo compito è risuonato e risuona quel pensiero che papa Francesco ha posto al centro della Evangelii gaudium: “Ora vorrei condividere le mie preoccupazioni a proposito della dimensione sociale dell’evangelizzazione precisamente perché, se questa non viene debitamente esplicitata, si corre sempre il rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della missione evangelizzatrice”.
Un pensiero, risuonato nel viaggio apostolico a Cuba e negli Usa, che introduce un punto fermo nel confronto sulle migrazioni forzate e sugli aiuti ai Paesi poveri: un punto fermo che tocca la coscienza dei cristiani e di quanti, pur non dicendosi tali, hanno a cuore la giustizia e la pace.
Ecco perché, ai bordi della cronaca, il messaggio dei missionari che hanno lasciato le loro città per abitare le periferie nel mondo suona come un giudizio amaro e anche come un appello a guardare con occhi nuovi quanto è accaduto e sta accadendo nei mari e sulle strade di confine in Europa e in America.
Non si tratta, nel complesso e acceso confronto sul fenomeno immigratorio, di forzare una testimonianza come è quella missionaria. Si tratta di non dimenticarla o di sottovalutarla.
Si tratta di fare di questo mese di ottobre dedicato a persone ignorate e dimenticate che si chiamano missionari un’occasione per aggiungere un supplemento di umanità nelle analisi, nelle valutazioni, nelle proposte.
Sarà una piccola cosa ma certe piccole cose sono preziose e possono aiutare l’opinione pubblica a ritrovare e riamare la propria responsabilità nella costruzione di ponti e nell’abbattimento di muri.
Paolo Bustaffa