“Quanto pesa una lacrima? Dipende: la lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la terra”. Così scriveva Gianni Rodari. La frase è tornata alla mente, sabato 16 aprile, nel seguire le parole e i gesti di Francesco, Bartolomeo e Ieronymos nell’incontro sull’isola greca di Lesbo.
Nella sofferenza dei bambini che sono nei campi profughi si legge una lacerazione interiore profonda, difficilmente sanabile.
Un’onda di brutalità li ha travolti, con le loro famiglie, e un’onda di indifferenza continua a travolgerli. Nel loro pianto c’è un susseguirsi, angosciato e angosciante, di tanti perché sulla tragedia di ieri, su quella di oggi e su un futuro incerto.
Non è facile comprendere il messaggio delle lacrime. Lo scrittore, poeta e saggista marocchino Tahr Ben Jelloun scrive ad esempio: “Io non piango, non serve a niente e non dà alcun vantaggio. È indegno del mio destino. Per piangere bisogna aver ricevuto un minimo d’affetto. Io non ne ho mai avuto. No, nessuna lacrima. E nemmeno emozioni. L’emozione mette in subbuglio le cose. Rischia di perturbare i miei calcoli. E se mai dovessi piangere, non lo farei mai in pubblico, ma solo. Chiuso. O sott’acqua. La lacrime si mescolerebbero con l’acqua, e non le vedrei, non le avrei perse”.
Il pensiero ruota attorno a una frase: “Per piangere bisogna aver ricevuto un minimo di affetto”.
Ed è proprio quando l’affetto viene interrotto o messo in pericolo, così come è per la stragrande parte dei piccoli in fuga dalle loro case, le lacrime diventano tutto ciò che di umano rimane a loro.
E pesano ancor più di tutta la terra.
Sono raccolte in un piccolo pugno che è così debole da non avere nemmeno la forza di stringersi per reagire all’arroganza del potere, del rifiuto, della indifferenza.
Una debolezza che si manifesta, come un filo rosso, nei volti visti a Lesbo, Lampedusa, Brennero, Calais, Idomeni, sulle sponde nordafricane e altrove.
Le lacrime degli innocenti non sono affatto una pioggia che irriga la terra riarsa d’Europa, dei popoli europei, per renderla un giardino.
Non a caso a Lesbo è risuonato il monito che su tanta indifferenza europea un giorno ci sarà un giudizio.
Non sarà allora possibile, nel tentativo di giustificarsi, ripetere che gli immigrati sono troppi, che non è possibile accoglierli tutti, che bisogna distinguere tra chi rischia poco e chi rischia molto…
Qualcuno ha già detto che le lacrime a Lesbo non erano solo dei bambini, delle loro madri, dei loro padri. Qualcuno ha aggiunto che la coscienza di chi è fuori dai campi di sofferenza è in dissolvenza. Qualcuno ha ammonito dicendo che un pianto inascoltato potrebbe essere domani la causa di altri pianti.
Le lacrime che stanno bagnando le terre di confine o stanno mescolandosi con le acque di confine impregnano e rendono sempre più pesante l’Europa.
Fino a quando non ci saranno risposte? Fino a quando le parole, le immagini e i gesti dei giorni scorsi sull’isola di Lesbo toccheranno le coscienze prima di finire negli scaffali dell’utopia, dell’irrealismo, delle notizie superate?
Fino a quando si penserà che le lacrime, nel loro silenzio, appartengono alla sfera dei sentimenti e delle emozioni e non a quella della ragione e del realismo che non possono prescindere dal valore di ogni persona?
Fino a quando si dirà che il peso delle lacrime è leggero e che si asciugheranno da se stesse, magari perché non ci sarà più la forza di piangere o perché si confonderanno con le acqua del mare?
Nell’incontro sull’isola di Lesbo, papa Francesco ha detto e testimoniato che è possibile, quindi è doveroso, dare risposte di speranza a quelle lacrime. Prima che il loro peso spinga l’umanità verso il buio.
Paolo Bustaffa