Il dito sulla tastiera del computer vorrebbe scorrere per scrivere qualche pensiero, qualche parola sulla strage di Parigi. Sarebbe più che normale e giusto ma, ai bordi della cronaca, accade a volte qualcosa che invita a fermarsi. Un fiume di parole sta correndo attraverso i media ed è bene che sia così. Perché allora una sosta che potrebbe essere intesa come difficoltà o incapacità di esprimere un pensiero dopo tanto sgomento e tanta paura?
Forse perché, ai bordi della cronaca, ci si può, a volte, fermare per distinguere la voce del Nulla nel rumore delle armi dalla voce dell’Infinito nel rumore di porte che si aprono.
Due rumori contrapposti nella stessa notte, mentre sul terreno ci sono corpi senza vita e si sentono urla disperate.
Ma come raccontare con il linguaggio dei media queste voci, questi rumori?
Il massacro di Parigi esige il racconto della disumanità di chi spara e con non minor forza esige il racconto dell’umanità di chi invia messaggi e compie gesti di solidarietà.
Perché vincano la speranza e la fiducia.
E adesso?
Non a caso così titolava a tutta pagina un quotidiano nazionale italiano due giorni dopo la strage.
È la stessa domanda che ci si pose l’11 settembre 2001 con l’attentato alle Torri Gemelle.
È la stessa domanda che ci si pose di fronte alla catasta di cadaveri nei campi di sterminio nazisti o di fronte ai corpi umiliati e straziati nelle carceri e nei gulag del comunismo.
Le risposte sono note ma il male, la crudeltà, la disumanità le hanno cancellate e le cancellano in fretta.
Gli attentati terroristici rivendicati dall’Isis ne sono una tragica conferma.
E adesso? Questa domanda diventa, ai bordi della cronaca, un invito a rallentare, seppur provvisoriamente, la gara mediatica.
Ci sono certamente parole vere che corrono lungo le autostrade dell’informazione ma che non possono essere in grado di rispondere ai perché esistenziali.
D’altra parte, ci sono risposte che non vanno cercate nei media che possono portare fino alla soglia del mistero ma poi cedono il passo alla ricerca, lasciano il passo al silenzio. Essi per primi sono consapevoli della loro inadeguatezza e sanno che non è loro compito varcare quella soglia.
Così, nel silenzio che sale ai bordi della cronaca quasi impercettibilmente arriva, tra le altre, la domanda di Elie Wiesel dopo il suo incontro con il male nei campi di sterminio nazisti. “Ho capito – scriveva lo scrittore ebreo Premio Nobel per la Pace nel 1986 – lo sdoppiamento dell’interrogazione che l’uomo moderno subisce: come ho diritto di domandare al Giudice di tutti gli uomini perché hai permesso Auschwitz così lui ha diritto di domandarci: perché avete rovinato la mia creazione? Con che diritto avete tagliato gli alberi della vita per farne un altare alla gloria della morte?”
La sosta silenziosa ai bordi della cronaca del massacro di Parigi invita alla rilettura delle parole di Elie Wiesel: “Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai”.
Parole che riempiono di voci il silenzio ai bordi della cronaca di una notte di terrore. Un silenzio breve, una sosta necessaria per riprendere il cammino, per dare una risposta di speranza alla domanda: “E adesso?”.
Paolo Bustaffa