“Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio”. Così negli anni ‘60 scriveva Pier Paolo Pasolini a don Giovanni Rossi fondatore della Pro Civitate Christiana.
Tra pochi giorni, nella notte tra il 1° e il 2 novembre, ricorrono i quaranta anni dall’uccisione del regista all’Idroscalo di Ostia.
I giornali, seppur a modo loro, lo ricordano con il tenere accesa la memoria mentre corre la cronaca.
Le parole del regista di “Accattone”, “Ragazzi di strada” e “Il vangelo secondo Matteo” sono ancor oggi mescolate con la sabbia e con la polvere del litorale dove avvenne la tragica fine di chi, consapevole dei propri difetti e dei propri cedimenti, è sempre stato cocciuto nella ricerca del significato altro e alto da dare alla propria vita.
Nel febbraio 1963 Pasolini scriveva, sempre alla Pro Civitate Christiana: “In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio perché non sono credente – almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino, credo cioè che il lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità”.
Alla vigilia del Convegno che la Chiesa italiana dedica al tema “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo” quello di Pasolini può essere riletto come un invito ad andare oltre le parole autoreferenziali.
Accanto al regista, chiamato “il corsaro”, che diceva: “Non sono credente” appare, sempre in questi giorni, su diversi quotidiani un “miscredente”, come si definisce Eugenio Scalfari. Nel presentare il suo libro “L’allegria, il pianto e la vita” il giornalista-filosofo tocca il tema dell’uomo con questo pensiero: “Ci sono due modi per affrontare la conoscenza: viaggiare verso l’esterno e viaggiare al proprio interno”.
In questo viaggio interiore sta la differenza sostanziale tra l’uomo e gli animali che “non vedono se stessi mentre vivono, non si vedono invecchiare, non dicono ‘io morirò’, non distinguono il passato dal futuro”.
Nel cercare dentro se stesso un significato alto per la propria vita ci sono, secondo Scalfari, la grandezza e la superiorità dell’uomo.
È stimolante, ai bordi di una cronaca costretta a raccontare del crescendo di disumanità, lasciarsi interrogare da coloro che affermano di non credere ma continuano instancabilmente a cercare risposte non effimere ai perché del vivere, del morire, del soffrire, del gioire.
Sono sentinelle che, allertate dalle notizie, segnalano il rischio di eclissi della verità sull’uomo e di perdita di umanità ma, nel contempo, lanciano l’invito a un’alleanza tra persone pensanti per impedire che il buio cancelli del tutto l’uomo.
Ma questo non sarà possibile perché, nonostante tutto, nell’uomo c’è un inestinguibile desiderio di Infinito, la ragione stessa dell’uomo cerca l’Infinito. C’è la ricerca di Dio, c’è il desiderio di incontrarlo. Ecco perché al bivio tra il Nulla e l’Infinito, dove vengono decise la direzione della vita e quella della storia, chi non crede cerca la compagnia di chi crede per continuare una ricerca che trascende la finitezza dell’uomo. Si potrebbe partire dal tema dell’imminente Convegno ecclesiale a Firenze: “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”.
Paolo Bustaffa