Legittimità giuridica e opportunità politica dei provvedimenti contro i social di Donald Trump: la questione è tutt’altro che semplice e investe la concezione che abbiamo della democrazia e dello Stato.
Partiamo da una provocazione quasi brutale: con tutto ciò che ha detto e fatto Trump negli ultimi quattro anni, è davvero curioso che il suo ban da Twitter arrivi proprio adesso, quando le chiavi della Casa Bianca (e delle strutture di intelligence) stanno cambiando padrone. Le decantate policies dei social network sono in vigore da molto tempo, e di certo non si può dire che in questi anni il presidente americano uscente non le avesse violate – o non avesse abbastanza visibilità per essere denunciato di tali violazioni.
Niente di cui stupirsi, si dirà: in virtù del loro potere, le piattaforme agiscono anche secondo parametri politici. Tanto più che il loro destino è legato a doppio filo con le agenzie di intelligence statunitensi. E quindi, con Trump finalmente fuori dalla stanza dei bottoni, via libera all’impeachment digitale del presidente.
Ma in tal caso, sorge spontanea un’obiezione: se i social possiedono una discrezionalità che va oltre i propri regolamenti, quali sono i loro limiti? E perché appellarsi allora alle proprie regole contrattuali, che tra l’altro possono essere modificate in qualsiasi momento? Soltanto pro forma, per legittimare una scelta epocale benché controversa?
Sia chiaro: le parole e le azioni di Trump sono più che “censurabili”, anzi spesso un insulto alla dignità di un paese civile e democratico. E questa non è un’opinione dell’ultima ora, di quelle tatticamente formatesi dopo i fatti di Capitol Hill e i relativi riposizionamenti politici, ma un semplice riscontro di anni assolutamente inediti nella storia americana e mondiale per la loro sovversiva volgarità. Nessuna simpatia per il personaggio, nemmeno velata o strisciante, porta dunque a simili riflessioni. Ma una sincera preoccupazione per le modalità con cui sono state compiute le azioni restrittive nei suoi riguardi. Certamente – e ne converranno tutti, favorevoli e contrari – di una gravità senza precedenti.
L’obiezione più frequente ai perplessi del ban riguarda la soggettività privata dei social network. L’idea che in casa propria si possa fare ciò che si vuole è ormai radicata e riscuote inaspettati consensi anche tra i meno entusiasti del capitalismo, eppure proprio questi dovrebbero ricordare il fondamentale ruolo (ancora) svolto dallo Stato e dalle sue leggi. Altrimenti, oltre al classico esempio dei reati violenti commessi nella propria abitazione, si potrebbe opporre il caso delle aziende che assumono o pagano secondo logiche illegali, di sfruttamento o discriminazione. Nessuno, tantomeno comunità che includono milioni o miliardi di individui, è libero di attenersi soltanto al proprio statuto o regolamento interno, ignorando la Costituzione e le leggi dei Paesi in cui opera.
E nessuno, tra l’altro, garantisce che l’orientamento liberal delle piattaforme rimanga tale per sempre. Ciò che ci sembra giusto oggi, potrebbe suonarci profondamente sbagliato domani. E anche senza citare casi all’estremo opposto, che fanno buon gioco a chi “ragiona” in termini manichei (tutti siamo contrari alla censura cinese di Hong Kong, per dire), non si può ignorare l’esistenza di una vastissima zona grigia per la quale, possiamo starne certi, sparirebbero in pochi secondi le risposte pronte e in punta di diritto di questi giorni.
In assenza di patentini di democrazia e di bontà delle intenzioni, chi stabilisce in quali Paesi il dissenso è libera espressione politica o esacerba tentazioni terroristiche? E chi determina la liceità di certe vignette, come quelle del disegnatore filo Trump Ben Garrison appena bannato da Twitter parimenti al suo presidente? Non occorre una laurea in scienze politiche per fiutare un terreno molto, troppo scivoloso.
Infine, un’ultima questione. Meramente politica. Diamo pure per assodato che la discrezionalità dei gestori dei social network sia non soltanto una cosa certa, ma anche una cosa buona. Rifugiandoci nell’idea che la loro proprietà rimanga stabilmente in mano a gestori illuminati, di cui condividiamo le finalità e gli orientamenti.
Anche in questo modo, purtroppo, si addensano ombre sull’opportunità dei ban. Siamo infatti ormai tutti coscienti della polarizzazione in corso nelle nostre società occidentali. Credere che gli esclusi non possano o non vogliano organizzarsi su altre piattaforme, specie nel vasto e (per fortuna) libero mondo di internet, sarebbe quantomeno naif. Un po’ come credere che rimuovere una statua equivalga a rimuovere il passato oscuro che rappresenta.
La sparizione da Twitter o da Facebook non comporta un’eliminazione fisica dal mondo reale, ma una momentanea incomunicabilità virtuale tra due realtà già in aspro conflitto. Non solo il problema non viene risolto, ma con il suo aggiramento si rischia semmai di ingigantirlo, vuoi per la furia montante degli adepti del trumpismo (il cui vittimismo contro i “poteri forti” verrà ben nutrito), vuoi per la riduzione inesorabile degli spazi di confronto, che limita a sua volta ogni possibilità di ricucire i brandelli di una società già troppo lacerata.
Se la strategia portata avanti è quella di “occhio non vede, cuore non duole”, allora si continui pure così. Se invece si ritiene che coi ban si arginerà una deriva che ha tutt’altre radici, allora forse sarebbe il caso di rifare meglio i conti. Per scoprire, magari, che certi fenomeni sarebbe meglio che si sgonfiassero da soli.
Pietro Figuera