“Il tempo si fa più grigio, forse si prepara per domani, perché domani è un giorno di lutto: 28 ottobre! [anniversario della cosiddetta “marcia su Roma”, ndr]. Non è molto che, per il fascismo mi sarei fatto uccidere, e più ancora per il Duce. Oggi mi sono dovuto accorgere che mi ero sbagliato, anzi che eravamo stati ingannati, giorno per giorno, per oltre 20 anni!
Quanto marcio è venuto fuori dopo il 26 luglio! [arresto di Mussolini e caduta del fascismo, ndr] Tanto, quanto basterebbe a ricoprire di fango l’Italia tutta! E noi siamo partiti volontari, decisi a difendere e ad imporre il nostro credo di fascisti! Ingenui, ingenui che volevamo correre a farci ammazzare perché i buffoni malvagi di Roma continuassero ad ingrassare! Dopo la grande delusione, nei nostri cuori, almeno per la maggior parte, non c’è odio, forse perché il disgusto e la nausea sono tanto grandi, che non lasciano posto ad altri sentimenti” (Filippo Carbonaro, “Diario dalla prigionia – All’inferno e ritorno”, pag. 50).
È questa una delle pagine più amare, ma allo stesso tempo più lucide, del diario di prigionia dell’acese Filippo Carbonaro (1920-2001). Partito volontario per la seconda guerra mondiale, come ufficiale dei Bersaglieri, il giovane acese venne sorpreso dai tragici fatti dell’8 settembre 1943 a Pola, dov’era di stanza il Battaglione San Marco.
Abbandonati dagli alti comandi, i soldati italiani divennero facile preda dell’esercito tedesco, ben presto trasformatosi da alleato nel più crudele e spietato dei nemici. Gli ufficiali del Regio Esercito, quelli che non vollero rendersi complici della barbarie nazi-fascista, vennero catturati e deportati in vari campi di prigionia, dove furono costretti a “vivere” in condizioni disumane per circa due anni, fino alla loro liberazione da parte delle truppe statunitensi.
Il diario della prigionia di Filippo Carbonaro, recentemente dato alle stampe, a cura dal figlio Vincenzo, per i tipi della Bonanno editore, descrive con crudo realismo la tragedia immane della guerra, le sofferenze patite da essere umani umiliati da altri esseri umani e il tribolato viaggio di ritorno del suo autore nell’amata Acireale.
Attraverso le sensazioni e riflessioni personali, messe per iscritto da un giovane (disilluso) di 23 anni, sempre in bilico tra speranza e disperazione, possiamo – solo lontanamente – immaginare i morsi della fame, i rigori del freddo continentale, la struggente lontananza dagli affetti più cari, di cui i prigionieri non ebbero notizie per mesi.
Un libro da far leggere sia alle vecchie che nuove generazioni. Alle prime, perchè non perdano mai la memoria di quei tragici fatti; alle seconde, per rendere anch’esse consapevoli degli orrori della guerra e dell’odio cieco che sempre porta con sè il nazionalismo; un nazionalismo che ancora oggi minaccia l’Europa e il mondo intero.