Parla il vescovo di Mazara del Vallo, alla guida della diocesi più colpita dal sisma: “Servono interventi concreti che completino l’opera di ricostruzione, che non è ancora del tutto ultimata, e serve che non ci si dimentichi di questa terra e di questa Valle. Oggi tutto ciò sembra marginale negli interessi anche della stessa Regione Sicilia”.
“La ricostruzione non è ancora completa. Oggi la sfida è ricostruire un tessuto sociale. Non servono contributi, ma opportunità per creare condizioni di sviluppo”. Ne è convinto il vescovo di Mazara del Vallo, mons. Domenico Mogavero, che, domenica 14 gennaio, a Montevago (Agrigento), presiederà la celebrazione eucaristica durante la quale verranno ricordate le vittime del terremoto che cinquant’anni fa colpì la Valle del Belìce. Attorno all’altare con lui altri cinque vescovi delle diocesi della Sicilia occidentale. Ma la più colpita fu quella che il presule oggi guida. Sette paesi del suo territorio furono ridotti in macerie dal sisma, tra il 14 e il 15 gennaio 1968: Gibellina, Salaparuta, Vita, Salemi, Poggioreale, Santa Ninfa e Partanna.
In quest’ultimo, si recherà il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, domenica mattina, per l’apertura delle commemorazioni. Cinquant’anni dopo gli eventi sismici, c’è ancora da fare. Sono state ricostruite case, scuole e altre strutture pubbliche. Adesso la priorità è un’altra: “Creare le premesse per insediamenti di carattere industriale che valorizzino e trasformino le materie prime che vengono prodotte: dall’uva all’ulivo, alle colture in serra”. La realtà descritta dal vescovo è quella di “un territorio e aziende che non riescono a decollare, perché mancano le premesse”. “Quando qualcuno ha un po’ di coraggio in più degli altri e qualche risorsa da investire, che non viene da fondi pubblici, per tentare vie nuove, riesce a fare qualcosa – spiega mons. Mogavero -. Questo testimonia che la Valle ha delle potenzialità. Bisogna, però, che vengano individuate e sviluppate da chi ha il potere di farlo”.
Cinquant’anni dopo il sisma, quali sono le ferite ancora aperte nella popolazione del Belìce?
Il tessuto umano della Valle è stato devastato dal terremoto più del territorio e delle abitazioni, perché c’è stata una massiccia emigrazione. Pare addirittura che, nei primi tempi, ci fosse stata un’iniziativa politica che la incoraggiava con l’offerta di biglietti gratuiti di sola andata. Quindi, oggi i paesi si trovano a essere estremamente invecchiati con scarse prospettive, perché chi rimane solo in casi isolati riesce a trovare sbocchi di sviluppo, di lavoro, di inserimento produttivo nel territorio.
Sono state compiute, inoltre, delle ignominie dal punto di vista paesaggistico e architettonico: si è ricostruito il tessuto urbanistico, ma non si sono poste le premesse perché la Valle potesse tornare a vivere con le sue risorse, cioè agricoltura, artigianato e anche turismo.
Inoltre, la ricostruzione dei paesi è avvenuta in maniera difforme rispetto ai nostri moduli urbanistici. In alcuni casi, è difficile individuare un centro verso cui si converge. Sono state costruite strutture urbanistiche che non favoriscono la vita in strada o in piazza. Così la Valle ha perso il suo volto e la sua identità.
Una ricostruzione, tra l’altro, compiuta con tanti sprechi e cominciata dieci anni dopo il sisma. Come si spiega?
La ricostruzione nel Belìce non credo sia costata più che nell’Irpinia. È stata la prima esperienza moderna di questa realtà con tutte le improvvisazioni, con tutti gli errori e le magagne che, a ogni livello, senza escludere la politica nazionale, sono state fatte. Si è pensato che ricostruire cubature degli edifici fosse la risorsa dei paesi. Nel frattempo si distruggeva tutto. Si sono abbattute chiese senza alcuna remora. E noi oggi
ci troviamo in una zona che ha perso effettivamente le sue caratteristiche principali.
Gli sprechi ci sono stati, perché tutto è stato concepito al di fuori della Valle. La regia non è stata locale, ma nazionale. Con tutte le lentezze che possono derivare dal fatto che ogni passaggio doveva essere approvato ed eseguito dalle autorità nazionali, senza alcun contatto diretto con la realtà locale. Un errore che è stato corretto nei casi dei terremoti successivi. I finanziamenti venivano erogati a goccia. Così non si sapeva quando cominciavano gli interventi né quando finivano, perché tutto doveva passare dalle strettoie di un’unica cabina di regia. E questo ha provocato delle incompiute incredibili, a Poggioreale, a Gibellina e a Salaparuta. Adesso se ne continuano a pagare le conseguenze.
Nella sua recente visita pastorale alle comunità della diocesi, lei ha avuto modo di osservare e incontrare le realtà attive nei paesi colpiti, cinquant’anni fa, dal sisma. Che cosa ha toccato con mano? Quali sono oggi le prospettive per loro?
I giovani hanno bisogno di essere accompagnati perché possano trovare qui quello che cercano, ovviamente per desideri a misura del territorio. Se l’obiettivo è ottenere la specializzazione e sbocchi operativi nell’alta tecnologia è chiaro che qui non se ne trovano. Se si potenzia con appropriati investimenti l’agricoltura per le specialità del luogo, come la vite, l’ulivo e anche i cereali, oltre alla coltura in serra, invece, è probabile che ci si senta più invogliati a restare. Dal momento che sono ambiti nei quali si può vivere bene, si può fare specializzazione delle colture e anche sperimentazioni.
Domenica si ricorderanno i 50 anni dal sisma e le vittime che ha causato con una serie di cerimonie e commemorazioni. Secondo lei, che cosa può portare questo calendario di eventi a quelle realtà?
Porterà l’inevitabile peso di una retorica di circostanza. Noi cercheremo di portare un messaggio di incoraggiamento e di speranza sia agli anziani che vivono in questi paesi sia ai giovani che intenderebbero restarci. Però, tutto questo non basta.
Servono interventi concreti che completino l’opera di ricostruzione, che non è ancora del tutto ultimata, e serve che non ci si dimentichi di questa terra e di questa Valle. Oggi tutto ciò sembra marginale negli interessi anche della stessa Regione Sicilia.
Speriamo sia solo una sensazione negativa. La Valle ha bisogno di essere aiutata a svilupparsi, non di elemosina o di contributi a pioggia che tappano la bocca a qualcuno o fanno interessi di altri. Ha bisogno di investimenti che permettano di realizzare occasioni di sviluppo per le persone che intendano rimanere e che diano un volto nuovo a questa terra. Bisogna evitare che un giorno questa sia non più la Valle del Belìce, ma il deserto del Belìce.
Filippo Passantino