Erano gli anni ’50 e ricordo ancora l’odore della pelle e del cuoio che mio padre adoperava per costruire o riparare le scarpe.
A quei tempi le scarpe venivano costruite su misura e interamente a mano, ancora non c’erano i macchinari. Fare il calzolaio era considerato un mestiere, ma anche un’arte.
Il calzolaio, per fare un paio di scarpe, prima disegnava il modello della scarpa che aveva in mente su un foglio di carta, di quella che trovava, che poteva essere il foglio di un giornale o di carta paglia. Successivamente il modello di carta veniva incollato su un cartone leggero che permettesse al calzolaio di tagliare bene la tomaia e le fodere che poi avrebbero avvolto la forma.
A quei tempi le forme erano di legno e il calzolaio, di volta in volta, le modellava in base alla forma anatomica del piede del cliente. Per rendere ben rafforzata la scarpa, tra la tomaia e la suola veniva applicato il guardolo (fascia di cuoio di circa 4 centimetri), sagomato intorno ai bordi della forma. Il guardolo (in lingua siciliana ‘u vaddiuni) , perché si potesse plasmare , prima veniva messo in bagno nell’acqua in un contenitore di terracotta (chiamato ‘u scifu) per circa 5/6 giorni.
Per completare un paio di scarpe, normalmente, occorreva una settimana di duro lavoro. Ora tutto è cambiato, le scarpe vengono costruite nelle fabbriche attraverso “catene di montaggio”; non ci sono più i ciabattini di un tempo, ma rimangono ricchezze del sapere e di tradizioni che faremmo bene a trasmettere ai giovani affinchè non vadano perdute.
Salvatore Cifalinò