Pastorale giovanile / Don Falabretti sul convegno nazionale: “Dare spazio ai giovani è promessa di futuro”

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“Tra il porto e l’orizzonte. Le direzioni della cura educativa”. E’ il tema del XIII convegno nazionale che il Servizio per la pastorale giovanile della Cei (Snpg) organizza a Genova dal 10 al 13 febbraio. Il convegno è indirizzato agli incaricati diocesani di pastorale giovanile e a coloro che si occupano dell’animazione del mondo giovanile. La scelta del tema si inserisce nel decennio che la Chiesa italiana ha deciso di vivere all’insegna della “cura educativa”, inserito in un contesto di fede cristiana. Ad aprire i lavori sarà monsignor Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, e a concluderli il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei e arcivescovo di Genova. Abbiamo chiesto a don Michele Falabretti, responsabile del Snpg, di illustrarci l’appuntamento.

Don Michele Falabretti fotografato a Rio nel 2013, alla Giornata mondiale della Gioventù
Don Michele Falabretti fotografato a Rio nel 2013, alla Giornata mondiale della Gioventù

 Da dove trae origine il tema del convegno?

“L’ispirazione è venuta dal luogo scelto, ovvero il porto antico di Genova. Il porto esprime bene l’idea di accoglienza, di riparo. E la cura educativa è innanzitutto la capacità di custodirti soprattutto nei momenti di difficoltà. Nello stesso tempo, una cura educativa vera è quella che ti permette di ripartire e che ti apre nuovi orizzonti. Un educatore in gamba è pronto ad accogliere il giovane e a lasciarlo ripartire con un percorso di vita senza lasciarlo in mare aperto. Così accende il faro per orientarlo”.

Cosa si propone di dire a chi si occupa dell’animazione e della cura del mondo dei giovani?

“Questo convegno si rivolge a tutti quelli che hanno il coraggio e la responsabilità di farsi carico dei giovani. Le direzioni della navigazione della vita non sono sempre certe, a volte si tratta di provare ad uscire in mare aperto e se necessario tornare indietro. La capacità dell’educatore è quella di riconoscere il bisogno di gradualità. Il mare aperto è un bisogno di tutti, ci possono essere false partenze. L’educatore è a fianco del giovane perché non si perda”.

Ma come interloquire con giovani sempre più istruiti, che abitano con i genitori, che non hanno lavoro, che non riescono a mettere su famiglia, che non hanno fiducia nelle Istituzioni?

“Ripartendo dalla centralità della comunità cristiana. Non è più il tempo degli esperti di pastorale giovanile cui caricare il tema dei giovani come fosse un problema. Un concetto questo bene espresso nel documento del 1999 ‘Educare i giovani alla fede’. La comunità deve farsi carico dei giovani. La situazione è drammatica ma se ne viene fuori insieme. Non possono essere un prete, due suore e quattro educatori a tenere in piedi una bella esperienza e battere la mano sulla spalla ad un giovane dicendogli, ‘stai tranquillo che tanto prima o poi un lavoro salta fuori’. Di educatori che sanno suonare la chitarra e che sorridono ma non riescono a cogliere i problemi reali dei giovani non sappiamo che farcene. E’ urgente ridisegnare la figura dell’educatore”.

Che tratti distintivi deve avere questa nuova figura?

“Innanzitutto deve avere una passione profonda, che sappia spendersi nel momento in cui accetta la sfida educativa, che a volte ti fa andare a mille e a volte ti fa perdere colpi. Ma senza abbandonare i ragazzi. Un educatore che non costruisce solo momenti di festa ma che condivide tutto con i giovani, anche le lacrime, quando non sa più che fare. La cura educativa non è legata solo al ‘saper fare’ ma al ‘saper essere’. C’è bisogno di una passione che torni senza paura alla domanda: perché lo facciamo?”.

 Prima parlava di comunità cristiana. Ma in che modo la Chiesa deve ricalibrare la propria azione pastorale?

“Deve essere una comunità che attiva delle reti e che tiene lo sguardo aperto sui suoi giovani. La pastorale giovanile non sono le cose che fai per e con i giovani ma è la capacità degli educatori di tornare dagli adulti e fare in modo che abbiano l’attenzione alta sulle nuove generazioni. Una pastorale giovanile non può basarsi su una fiducia smisurata negli eventi davanti ai quali non ci si deve tirare indietro, e penso alle Gmg, che sono bellissime. Se tornare a casa, per un giovane, vuol dire non aver futuro anche quei momenti rischiano di essere un tradimento. Sono l’offerta di un sogno che mai si potrà realizzare. Occuparsi dei giovani a 360 gradi ma non perché li si considera malati. La cura educativa va intesa come il collocare i giovani dentro la vita di una comunità, accanto agli adulti, agli anziani, ai bambini. Mettere i giovani in condizione di essere persone in grado di ricevere dalla comunità ma anche di donare”.

Come dire aiutare i giovani a vivere e non a campare…

“Aggiungerei anche aiutare i giovani a collocarsi nel mondo. La comunità cristiana può mostrare al mondo che esiste un modo attento e pieno di carità di fare spazio alle nuove generazioni. Allo stesso modo i giovani devono sapere che la vita si conquista e che non possiamo portargli i pesi in eterno. Nessun giovane, infatti, si è mai conquistato uno spazio perché gli adulti o chi gli stava davanti lo ha fatto passare. Nella vita si entra formandosi. La fede non è fuga dal mondo ma lo strumento che ti permette di entrarci avendo in mano la forza della verità del Vangelo”.

Daniele Rocchi

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