750 anni fa nasceva Dante Alighieri, il poeta italiano più celebre al mondo, il poeta assoluto della nostra lingua. Ma come ci sembrano distanti i suoi versi che hanno il sapore del dolce stil novo, la perfetta sintassi e le sublimi terzine dal moderno linguaggio di oggi fatto di parole tronche, acronimi e segni mimetici dispersi nell’etere, tra sms, Wathsapp, Facebook e stridenti segnali acustici.
Proprio il linguaggio è stato il perno principale di cambiamento nella storia di un entusiasmante e significativo movimento artistico del primo Novecento: il dadaismo. Cosa significasse DADA è una domanda talmente complessa che se la chiedessimo ad uno dei suoi fondatori, Tristian Tzara, egli ci risponderebbe con affermazioni all’apparenza prive di logica: “Dada non significa nulla… è il cavallo a dondolo…”.
Dada nasceva nel 1916 a Zurigo in una Europa dilaniata dalla Grande Guerra e nasceva dal rifiuto generazionale di una società borghese e stereotipata, colpevole proprio di quel conflitto; nasceva con un motto, un grido, “nihil” ovvero niente, che non era però un elogio al nichilismo, ma era voce entusiasta di un’avversione verso le convenzioni e i canoni estetici della società del tempo. Un gruppo di giovani letterati, filosofi e artisti di varie nazionalità intesero che l’arte non poteva più essere solo pittura e scultura, bensì l’arte era la parola stessa, era un suono o un rumore, era un volto, un disegno o un pezzo di legno o un inutile oggetto metallico; per loro l’arte, con la A maiuscola, era l’espressione più pura della libertà.
Il rinnovamento doveva partire anzitutto dal linguaggio: nacquero così i Manifesti dadaisti, il Cabaret Voltaire e nacquero opere apparentemente incomprensibili e dal titolo paradossale. I Manifesti dadaisti rappresentano infatti una vera e propria forma di arte, traboccanti di parole sconnesse e senza riferimento, frasi disarticolate e dislocate. Questa tipologia di espressione aveva un preciso significato, si trattava della disgregazione dadaista del linguaggio, ovvero di una purificazione delle forme letterarie fino ad allora assoggettate alle convenzioni. Eccone un esempio tratto dal Manifesto sull’amore debole e l’amore amaro: “pare che esistano davvero: il più logico, il molto logico, il troppo logico, il meno logico, il poco logico, il davvero logico, l’abbastanza logico. Ebbene, traetene le conseguenze. Fatto: Invocate mentalmente l’esser che amate di più. Fatto? Ditemi il numero vi farò la lotteria”.
Nacquero poi le serate dadaiste, dove Hugo Ball e Richard Huelsenbeck, con anomali e stravaganti costumi di cartapesta colorata, recitavano rumori e poesie. Al rumorismo, ovvero la musica dei rumori, si accompagnava la poesia onomatopeica e la poesia simultanea, cioè poemi in lingue diverse e sconosciute che venivano letti contemporaneamente, e venivano accompagnati da musiche popolari, repertori folkloristici e danze frenetiche. Celebri sono rimaste le invenzioni dadaiste, come i ready-made di Marcel Duchamp. Ricordiamo la Ruota di Bicicletta, un oggetto comune che acquista una valenza estetica: la scelta dell’artista gioca proprio sull’ambiguità del gesto, al fare tradizionale, ovvero creare, si contrappone il ri-fare ovvero ri-creare tipico del dadaismo, si tratta in fondo di un’operazione puramente linguistica: DADÁ … DADÁ… DADÁ.
Adolfo Parente