La nostra società viene spesso identificata come la società delle immagini o, per dirla con il titolo di un famoso libro di Guy Debord è La societè du spectacle; dove tutto diventa figurazione e slogan e l’individuo assume il duplice ruolo di attore e spettatore di se stesso perché lo spettacolo “non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”.
Proprio il rapporto tra immagine e società, tra civiltà e individuo, tra spazio urbano ed essere umano, è punto privilegiato di riflessione e di rappresentazione di quella stupefacente corrente artistica che prese il nome di Pop-Art, e che vide come suoi epigoni personalità singolari come: Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Jim Dine, per citarne alcuni. Questi artisti si trovarono ad osservare un mondo nuovo, progredito e opulento: era l’America della nuova frontiera kennediana, dell’uomo sulla luna, della pepsi-cola, dell’espansione incontrollata, erano i tempi di Elvis e Marilyn. Luogo di ispirazione degli artisti pop erano le città statunitensi, veri e propri happening strabordanti di immagini, di slogan, di pubblicità e di commercio; uno spettacolo di luci, suoni, colori e segnali che accompagnavano il viaggio diurno e notturno dell’uomo-individuo.
Dalla città gli artisti prelevavano quelle immagini che, sottratte al consumo di massa, potevano trasformarsi in arte colta e gioiosa. Ed era l’arte stessa che si adeguava al nuovo linguaggio produttivo e commerciale dello star system, divenendo oggettiva e ripetitiva… serigrafica. Andy Warhol è l’artista che più di tutti incarnava il nuovo corso culturale, politico e sociale egli, come dice Achille Bonito Oliva, “con la sua presenza fredda e distaccata, cancella ogni profondità e i suoi quadri, i suoi ritratti diventano la celebrazione della superficie”. Per Warhol la serigrafia era lo strumento privilegiato per rappresentare l’idea dell’uomo moderno, moltiplicato e stereotipato; l’uomo-folla che vive nella massa ma riabilita la sua dimensione privata trasformandola in ostentazione e divenendo così egli stesso oggetto di consumo. Con Jim Dine sono invece gli oggetti di uso quotidiano a divenire prodotto estetico. Egli attraverso la combinazione di tecniche tradizionali e innovazioni new-dada, come il collage o il ricalco lineare, sottrae gli oggetti comuni dalla loro dimensione “naturale” e, ponendoli sulla superficie piatta della tela, crea una sorta di aggancio tra il mondo irreale ed etereo del colore e il mondo concreto e terreno dell’oggetto, si tratta del combine painting. James Rosenquist è invece più impetuoso e affascinato dal paesaggio pubblicitario: i cartelloni pieni di colori, forme e associazioni lessicali sono fonte d’ispirazione per l’artista che scompone e interpreta le immagini purificandole dal loro linguaggio ammiccante e piatto. Egli ripropone gli oggetti nella loro funzione formale, di pura citazione, e attraverso nuove ed esaltanti associazioni, cattura la pubblicità, la disarma, trasformandola in arte. Quelle di Claes Oldemburg sono invece vere e proprie sculture “soffici”, una nota di ironia paradossale e grottesca dell’american dream. Sono i simboli della produzione alimentare e igienica statunitense che vengono riproposti in chiave ultra opulenta: dal colossale hamburger, gonfio e informe, fino ai dolci e ai dentifrici prodotti su scala abnorme.
La Pop Art si muoveva nella società di massa, una società produttiva, consumistica e sognatrice; gli artisti con le loro opere celebravano in maniera irripetibile le immagini di quel mondo e di quella vita, tanto popolare quanto comunicativa, ma ben distante dal mondo social di oggi dove si cerca ancora quel quarto d’ora di celebrità, ma l’immagine benché restituita in tempo reale appare svuotata.
Adolfo Parente