Se ne è andato in silenzio a 102 anni, la notte scorsa, fratel Arturo Paoli. Una vita intensa e per molti versi avventurosa. In un’intervista del 2000 (aveva 88 anni) si intravedeva il nucleo di quella Chiesa in uscita che è diventato il centro della predicazione di Papa Francesco: “Non bisogna fare elemosina ai poveri ma fare in modo che formino la nostra identità”.
Una lunga e saggia vita interamente dedicata ai poveri e alla giustizia. Una lunga storia per ciò che saputo
trasmettere intorno a lui in termini di spiritualità, impegno sociale e culturale. Un grande profeta e maestro per molti, testimone di un Vangelo vissuto come prassi di liberazione. Se ne è andato in silenzio a 102 anni, la notte scorsa, fratel Arturo Paoli. Viveva in Toscana, a San Martino di Vignale, una piccola frazione in provincia di Lucca. La salma sarà esposta oggi e domani nella chiesa di San Martino, il 15 luglio nella sua parrocchia di provenienza s. Michele in Foro, a Lucca. I funerali saranno celebrati lo stesso giorno in cattedrale alle 18. “Giustizia” e “amore per i poveri” erano le parole che ricorrevano più frequentemente nel parlare pacato e sereno di fratel Arturo Paoli. Lo incontrai per una lunga intervista nella sede dell’associazione “Ore undici”, dove si appoggiava nelle sue trasferte romane. Era il Grande Giubileo del 2000, fratel Arturo aveva già 88 anni ma esigeva dagli interlocutori il “tu” e creava subito un clima da “vecchi amici”. Trasmetteva con il suo sguardo limpido e buono un misticismo che riusciva a trasformarsi in azione di cambiamento della realtà, supportato da profonde conoscenze e da un intelletto sempre vivo.
Una lunga e intensa vita. Nato a Lucca il 30 novembre 1912, Arturo Paoli divenne prete diocesano nel 1940 e durante la guerra, a rischio della propria vita insieme ad altri sacerdoti, operò per salvare tanti perseguitati, in particolare ebrei. Questo gli valse in seguito il riconoscimento di “Giusto tra le nazioni”. Nel 1954 entrò nei Piccoli Fratelli del Vangelo, l’ordine fondato da Charles de Foucauld. Con loro fece una delle esperienze che più segnarono personalmente, un noviziato nel deserto di Algeria. In Argentina arrivò su un transatlantico nel 1960 e a Fortín Olmos, con i boscaioli, incontrò la povertà, le disuguaglianze sociali e le privazioni umane, che diventarono i temi della sua predicazione. Finì nell’elenco dei condannati a morte dal regime e fu costretto ad andare in Venezuela. Visse lunghissimi anni in Brasile, vicino alla meravigliose cascate di Foz do Igauçu, occupandosi sempre dei più poveri. Importantissima anche la sua passione per lo studio e la scrittura, con tantissimi libri e incontri pubblici che hanno formato intere generazioni. Nel 2006 fece ritorno a Lucca, presso la chiesa di san Martino in Vignale, dove proseguì, con mente lucida e parole sempre chiare, dirette e vere, la sua testimonianza.
“Dove non entra il povero Dio non entra”. Lo ribadì più volte durante l’intervista: “Non bisogna fare elemosina ai poveri ma fare in modo che formino la nostra identità. Loro me l’hanno formata. Io non vivo come loro, vivo umilmente ma mangio due volte al giorno, mi vesto, viaggio, ma la mia identità è in mano loro. Lì ho trovato veramente Dio”. È strano rileggere oggi quelle pagine, pensando alla Chiesa in uscita di Papa Francesco, che era proprio la Chiesa che Arturo Paoli sognava. “Quando la Chiesa istituzione non lancia ponti ma si ritira – diceva -, la sola possibilità che rimane è il dissenso. Perdendo in questo modo la possibilità di una critica costruttiva, di un contributo di pensiero che potrebbe dare il mondo laico”. Fratel Arturo era infatti molto critico contro scelte “strettamente spiritualiste fatte a misura della classe borghese, la classe ricca, statica, quella che non si vuol muovere, quella che in fondo sente che la Chiesa deve essere al suo servizio, che anche Dio deve essere al suo servizio”. Invocava invece una Chiesa in grado di essere “capita dagli intellettuali e dal popolo”: “L’intellettuale non aspetta una spiegazione razionale ma la visione di una fede che abbia una efficacia storica sulla trasformazione del mondo – spiegava -. Il popolo aspetta la giustizia, la difesa dei suoi diritti, la solidarietà”. Sembra o non sembra una profezia che si è realizzata con il Papa latinoamericano?
“Tutto quello che sono lo devo ai poveri”. Quando descriveva la sua esperienza di fede più intima e il suo impegno con i poveri traspariva la forza della sua relazione con Dio. “Durante l’esperienza della vita di fede – raccontava – ci viene tolta sempre più gradualmente la nostra iniziativa: nella relazione con Dio noi siamo totalmente passivi”: “Tutto ciò che ti aiutava ad avere una relazione con Lui non ha più senso, perché Lui ti occupa completamente”. “L’ascolto è nel deserto – diceva -, non si ha più bisogno di ricorrere a santi, letture, parole o a un libro o alla spiritualità. L’ascolto ti blocca lì dove sei e ascolti senza sapere veramente cosa. Ma senti che ascolti. Ti apri. Se dovessi dire quali sono le parole della mia preghiera sarebbero: ‘Vieni’ ed ‘eccomi’”. Una preghiera che si è trasformata in azione, perché “siccome Dio abita tra i poveri”, diceva, “forse mi ha scoperto tra i poveri perché lì sono andato con amore umano”: “Tutto quello che ho e che sono lo devo a loro”.
Patrizia Caiffa