Ci sono cose, magari di scarsa attuazione pratica ma di forte valenza simbolica, che fanno discutere un popolo per anni e anni (vedi l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori); e altre che hanno scarso appeal mediatico, ma che poi incidono nella carne viva di quel popolo. Per anni e anni.
Ecco, la revisione degli estimi catastali è sicuramente un esempio perfetto. Si tratta dei valori degli immobili registrati al Catasto italiano, il luogo dove tutto il mattone deve – o dovrebbe – essere registrato nella sua forma e, appunto, nel suo valore. Da questo valore discendono conseguenze assai pesanti: sui valori catastali si applicano le imposte previste in caso di compravendita immobiliare; sugli stessi si abbattono come falchi le tante imposte (Ici, Imu, Tasi, Tari…) inventate in questi anni per tassare case, capannoni, negozi, garage e via discorrendo. Sempre ai valori catastali bisogna rifarsi in caso di successione post mortem, e in certi casi quando si compilano le dichiarazioni dei redditi.
Le case sono poi divise in varie classi, all’interno del Catasto: e se sono classificate come “case popolari”, i proprietari possono brindare alla salute delle “case civili” o delle “abitazioni di lusso” perché molto a loro sarà risparmiato, in fatto di tasse, anche se la pseudo-casetta popolare si trova in pieno centro storico di Roma o Firenze.
Ecco: per decenni l’adeguamento degli estimi catastali ha corso con la velocità di una lumaca, rispetto al rialzo delle quotazioni immobiliari. Così capita quasi sempre che appartamenti del valore commerciale di 7-800mila euro, al Catasto siano “prezzati” quattro-cinque volte di meno. Lo sa perfettamente il legislatore, quando decide determinate aliquote fiscali; sapeva pure che le compravendite, nel rogito notarile, riportavano appunto solo il valore catastale e non quello reale.
Per avere un quadro più dettagliato della situazione, tempo fa il suddetto legislatore ha deciso che nel rogito vada segnato anche il valore di acquisto, pur neutralizzandolo a livello fiscale. Per evitare le tipiche favole che si raccontano quando non si ha molta voglia di far sapere allo Stato (e al Fisco, e al Catasto) quanto denaro veramente gira, ha obbligato il notaio a registrare i dati degli assegni circolari usati: fidarsi è bene, in Italia no.
Orbene, è da sempre che si parla di riadeguare i valori del Catasto a quelli del mercato. Ma appunto la materia è delicata, il lavoro immenso, i dati appunto in via di reperimento, le storture non mancano (si parla ad esempio di un paio di milioni di immobili esistenti ma non per il Catasto e il Fisco, soprattutto al Sud), così come non manca la voglia di rinviare, di procrastinare al prossimo anno o al prossimo governo.
Quello di Renzi parrebbe intenzionato a non procrastinare. Un po’ perché se i problemi cominciamo ad affrontarli, magari prima o poi li risolviamo; un po’ appunto per sanare la piaga dell’abusivismo edilizio; molto per ragioni di cassa: va da sé che la speranza dello Stato è quella di incassare, dall’operazione, qualcosa di più piuttosto che qualcosa di meno.
Ma la revisione degli estimi, sempre a detta dell’Esecutivo, andrà di pari passo con la revisione – dicono: semplificazione – della tassazione immobiliare, che ha raggiunto l’assurdo delle tre tasse (Imu, Tasi, Tari) e della selva di aliquote, di maggiorazioni e di esenzioni, di distinguo tra Comune e Comune, tra garage e cantina “seconda casa”, insomma tutto quello che noi italiani stiamo vivendo con fastidio (se non peggio) proprio in questi mesi.
Perché un conto è pagare le tasse, anche svenarsi come ultimamente accade; un altro è impazzire per farlo tra complessi calcoli, scadenze multiple, differimenti e quant’altro lo Stato italiano e gli enti locali sono riusciti a partorire per rendere odiosa un’azione doverosa e civile qual è quella di dare a Cesare ciò che gli spetta.
Nicola Salvagnin