La notizia riportata da una nota testata giornalistica locale del suicidio di un anziano nella corsia di un ospedale, e ancora la pandemia da Covid 19 che ha mietuto il maggior numero di vittime fra le persone anziane, soprattutto nel corso delle prime ondate, infine il caldo di questa torrida estate con le inevitabili conseguenze di emergenza sanitaria nella popolazione anziana e fragile, riportano la mia mente a un’esperienza umana e professionale vissuta qualche mese fa.
A seguito di una richiesta di consulto sanitario cardiologico, insieme a un mio collega mi sono recato al domicilio di una paziente affetta da una grave e invalidante insufficienza respiratoria che ne limitava l’autonomia.
L’accoglienza riservata dalla paziente – una distinta signora anziana, o meglio “grande anziana”, come oggi vengono epidemiologicamente definiti i soggetti che sono prossimi alla nona decade di vita – è stata da subito cordiale.
Il primo contatto
Prima di toccare le notizie cliniche necessarie, la conversazione ha divagato sul vissuto della signora, con rapida ma puntuale carrellata sui trascorsi professionali e familiari cha avevano caratterizzato fino a quel momento la sua esistenza.
Da subito abbiamo percepito la necessità umana della nostra interlocutrice, desiderosa di condividere quegli stati d’animo che la condizione di solitudine – in parte subita e in parte scelta, anche in forza di una forma depressiva e dello stato di salute precario – aveva accentuato nel corso degli anni.
Era chiaro il bisogno di rompere quel muro invisibile che si era innalzato nel tempo. Di mettere a nudo ciò che stava custodito nel silenzio fino a quel momento, di dar vita, forma e colore a ricordi sfumati; ancor prima di manifestare la domanda di aiuto per la propria salute fisica.
Emergeva pian piano la figura di una donna culturalmente impegnata, che manteneva la mente allenata con la lettura e magari con la risoluzione dei rebus. E che grazie al suo temperamento era stata capace di scelte socialmente coraggiose, specie se rapportate alla sua generazione.
Poi l’esame fisico
Successivamente si è passati all’esame fisico e strumentale che ha confermato il quadro clinico di una grave insufficienza respiratoria, aggravata da un’inveterata abitudine tabagica che aveva inevitabilmente determinato una carenza cronica dell’ossigenazione tissutale.
Prima di congedarci, dopo un breve scambio di pareri tra noi due colleghi, abbiamo confermato la diagnosi, apportato qualche modifica alla terapia medica fino a quel momento praticata. E soprattutto indicato alla paziente ciò che di modificabile in senso migliorativo poteva essere previsto per il futuro.
I saluti finali sono stati caratterizzati da un ringraziamento reciproco: da parte nostra, per l’accoglienza e soprattutto per la cordialità empatica che si era creata; da parte della paziente, per avere avuto la possibilità di essere ascoltata, anche se per un tempo breve. Era contenta di averci conosciuto.
Dopo due giorni, ricevo inaspettatamente una telefonata da parte di uno dei figli della nostra signora. Una grave crisi respiratoria, resistente ai trattamenti di emergenza, ne aveva purtroppo provocato, nel giro di qualche ora, il decesso.
Il regalo di un ultimo sorriso
Attonito per la rapida e infausta evoluzione, ho provveduto ad informare il mio collega. La nostra visita, mi ha detto, non era stata vana: se non altro, aveva regalato a quella persona un’ultima chiacchierata, un sorriso ed un po’ di calore umano.
Episodi simili, soprattutto in questo periodo segnato dall’emergenza pandemica, le corsie degli ospedali ne registrano sempre più di frequente. Offrendo non pochi spunti di riflessione.
Anzitutto, i pazienti anziani con le loro pluri-comorbidità appaiono complessi da gestire clinicamente. Ma ancor più complessa appare la gestione sotto il profilo umano. Si registra la difficoltà da parte della famiglia a sostenere il peso della cronicità, con tutte le conseguenze assistenziali che caratterizzano la fase del post ricovero.
Non siamo capaci di accettare la malattia e la sofferenza
È atteggiamento spesso dovuto all’incapacità di accettare la malattia e la sofferenza. La nostra società, sempre più spaventata dal dolore, lo demonizza, tentando di eliminarlo dalla propria esistenza, o quanto meno di occultarlo. Imperniata sulla prestazione e sull’esito, questa società interpreta il dolore come segno di debolezza, come qualcosa da nascondere. E lo condanna a tacere, nel segno di una diffusa algofobia, di una strategia “palliativa”.
Ne ha parlato il filosofo coreano Byung-Chul Han nel saggio La società senza dolore (Einaudi 2021), descrivendo lucidamente un tipico rischio odierno. Quello di chiudersi in una gabbia, nel tentativo di attivare un meccanismo di (falsa) sicurezza, a protezione di ogni rischio. Alla base, il rifiuto collettivo della fragilità. La pandemia ha accentuato tale meccanismo protettivo, inducendo paura e diffidenza.
Di qui il disagio verso l’anziano, di cui non si desidera la presenza. A un certo punto, l’anziano viene sradicato dal suo habitat familiare e confinato in strutture di assistenza sanitaria residenziale, per intenderci, quelle che una volta venivano definite case di riposo. E si delega a personale più o meno specializzato il percorso assistenziale
Immaginabile il terremoto emotivo che ne deriva in questi “assistiti”; lo si legge nei loro occhi, nello sguardo smarrito per la solitudine, per il distacco dal proprio ambiente e dalle proprie abitudini. Quello sguardo si proietta nel vuoto, cerca di riempirlo di ricordi.
Il problema umano richiede nuovi modelli di cura domiciliari
Collateralmente al problema umano della cronicità, emerge l’aspetto organizzativo con la crisi della sanità ospedalocentrica. E la conseguente necessità di riorganizzare una sanità territoriale che raggiunga la “periferia”, con nuovi modelli di cura domiciliari, contrassegnati da un più ampio coinvolgimento delle figure responsabili del “processo di cura” (medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi ed altri).
Si rende sempre più urgente il prendersi cura oltre che il curare; con recupero dell’umanizzazione della cura, in spazi e iniziative nel segno della cultura dell’ascolto, della medicina narrativa, della condivisione. Fondamentale, insomma, il recupero del rapporto medico-paziente come relazione umana ed empatica. Oltre che soluzioni mediche, vanno individuate condizioni e azioni per una vita qualitativamente migliore. Opportunità che permettano di regalare quell’estremo sorriso, forse ultima e vera medicina.
Francesco Amico
Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Cardiologia – UTIC
dell’Azienda Ospedaliera Cannizzaro di Catania