Ben-essere: quando l’assenza di affetti genera manifestazioni di violenza

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Arbusto divelto in Viale Regina Margherita

La mattina della prima domenica di settembre, in viale Regina Margherita, uno dei pochi alberati della cittadina acese, si presentava con tre alberi spezzati e uno piegato fino a terra. Mi sono fermata perplessa a guardarli e mi chiedevo quale tempesta di vento nella notte si fosse scatenata, perché in verità, io avevo dormito tranquilla e non avevo avvertito segnali di maltempo. Eppure, i tronchi non erano così sottili da essere facilmente stroncati. Mi sono chiesta se si fosse trattato di una gara di forza tra giovinastri che nella notte avevano razziato lungo la strada o un raptus di follia di qualche disperato dei nostri giorni. Ovviamente non ho una risposta oggettiva in merito e perciò continuo ad interrogarmi sul “perché?” della violenza, dell’irascibilità, del delirio, che ci accompagna giornalmente nella cronaca nera di questo secondo millennio. Penso alle morti per violenza omicida all’interno della propria famiglia, alle risse negli stadi, agli incidenti stradali per eccesso di guida o per assunzione di alcool o psicofarmaci. Penso alle urla violente dentro le nostre case quando non riusciamo a fare accettare le nostre ragioni anche ai familiari, alle facili contestazioni davanti agli sportelli di servizio pubblico (poste, uffici vari). Ci avvertiamo tutti con i nervi tesi alla prima difficoltà che incontriamo. Perché la violenza, perché l’ira accecante sovrasta più che in altre epoche, l’uomo di oggi? Non sono un medico psichiatra né psicologo né sociologo per fare un’analisi del fenomeno, tuttavia, da donna, da cittadina, da credente mi interrogo e tento di darmi una risposta, che metto in circolo, con l’intento di cercare insieme una ipotesi di intervento a favore del BEN – ESSERE, diritto di ogni uomo. Ascolto talvolta confidenze che raccontano il disagio del vivere. Al disagio soggettivo, a cui nessuno sfugge, si aggiunge un disagio oggettivo, dovuto a varie cause.

Particolare dell'arbusto divelto
Particolare dell’arbusto divelto

Una di queste è la malattia mentale, spesso collegata ad assenze di affetto. Circoscrivere la malattia mentale è impensabile, i raptus di follia colpiscono in maniera improvvisa il soggetto, al là di ogni previsione. Sono come le catastrofi naturali o le eruzioni del vulcano, a cui noi siamo ben abituati. Ma anche con le catastrofi ci sono danni imprevedibili e danni, che si possono arginare con opere di prevenzione e di supporto. Mi chiedo se nel caso della malattia mentale basti il trattamento terapeutico o non ci sia bisogno anche d’altro; se la famiglia e il supporto affettivo di persone che avvolgono di cure e di attenzioni il soggetto affetto da malattia mentale possano aiutare a gestire in modo accettabile le imprevedibili reazioni del disagio mentale. Spesso alla malattia mentale si accompagna tanta solitudine, tante discordie e assenza di dialogo con la propria famiglia, talvolta anche odio e rancori senza fine, che rendono spesso impossibile la cura e il controllo degli eventi. Una giovane quarantenne, soggetta a trattamento psichiatrico, mi diceva: “Ho trascorso metà della mia giovinezza in carcere, perché il reparto di psichiatria è come un carcere!”. E un altro, incontrandomi per strada: “Sto uscendo per distrarmi, altrimenti sono costretto a litigare con mia madre! Esco e così non le faccio male!”. In entrambi i casi, frasi rivelatrici della loro solitudine: “I miei non mi sopportano. A nessuno interessa la mia vita! Se vado in ospedale finalmente si liberano di me!”. Mi chiedo, se in una società evoluta, come la nostra, si possa trovare spazio per i rapporti familiari, amicali, domestici o se il ritmo del lavoro e della catena di montaggio (per tanti nostri più o meno futili impegni), ci abbiano fatto dimenticare che siamo uomini.

Arbusto divelto in Viale Regina Margherita
Arbusto divelto in Viale Regina Margherita

L’uomo è un essere sociale, non può vivere senza relazioni piene di significato, di sentimenti affettivi che trasmettano benessere, cioè il riconoscimento e la compiacenza della propria esistenza. L’essere riconosciuti significa molto più del cibo, dell’aria e dell’acqua, perché dice a ciascuno: “E’ bello che tu esista! La vita senza di te sarebbe meno bella!”. Ciascun uomo ha bisogno di sapere questo e di sentirselo ripetere dalle persone con cui si relaziona nella ordinarietà della vita non una tantum. Abbiamo bisogno di condividere gioie e fatiche, dalle più semplici alle più complesse. Spesso ci chiedono una moneta per una sigaretta o una birra, quasi mai per parlare o per fare insieme due passi e non rimanere sempre soli. Potrebbe un diverso stile di vita della nostra società arginare tanta solitudine e alleggerire la fatica alle famiglie, spesso lasciate sole, incapaci di gestire una situazione facile per nessuno? Pensiamoci!

 Teresa Scaravilli

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