Ventuno milioni di visitatori hanno ripagato gli sforzi di quanti, con grande coraggio, avevano intrapreso la grande avventura. Con gli occhi di tutto il mondo puntati addosso. Non c’è un “Modello Milano”, come non esiste un “Modello Roma”. Esiste invece un “Modello Italia”, che ciascuno di noi deve portare nel cuore
Expo ha chiuso i battenti. Ci siamo buttati alle spalle i timori, le apprensioni, le angosce di fare brutta figura davanti al mondo. Ce l’abbiamo fatta, dobbiamo esserne tutti orgogliosi. Ventuno milioni di visitatori hanno ripagato gli sforzi di quanti, con grande coraggio, avevano intrapreso la grande avventura. Poi siamo italiani, questo è vero: ci siamo ben guardati da visitare Expo in luglio e agosto, quando non c’era nessuno, e l’abbiamo affollata nelle ultime settimane, quando la calca impediva ogni movimento. E abbiamo fatto sei ore di coda per andare a visitare il padiglione del Giappone – “se ci vanno tutti chissà quali mirabilie mostrerà ai turisti”, ci siamo detti – salvo poi metterci piede e sbottare: “tutto qui?”.
Expo ha chiuso alla grande, Milano ha dimostrato ancora una volta di essere stata capace di rispettare i tempi e tagliare subito le mele marce che pensavano ad affari poco puliti sull’esposizione universale. Nello stesso periodo a Roma ne sono capitate di tutti i colori: la malavita organizzata che si arricchiva negli appalti pubblici, il funerale di un personaggio molto chiacchierato le cui immagini hanno fatto il giro del mondo, un sindaco rottamato che si è dimostrato inadeguato ad affrontare una situazione sempre più inaccettabile. Il tutto con il Giubileo alle porte.
E subito si è tornati a parlare del “Modello Milano” e del “Modello Roma”, con l’eterna contrapposizione tra “la capitale morale” d’Italia e “la capitale dei ministeri”. Una Milano – è stato detto – da esportare altrove, in Italia e fuori di essa.
Eppure non esiste un “Modello Milano” che può essere clonato, perché Milano è così. Punto e basta.
Esiste però l’orgoglio di sentirsi milanesi, il senso di appartenenza di una città che è cosciente di aver svolto un ruolo preciso nella storia d’Italia e che intende continuare a farlo. A Milano la metropolitana viaggia in orario, non ci sono scioperi improvvisi che gettano in ginocchio quei milioni di persone che ogni giorno si spostano da mezza Lombardia e da una parte dell’Emilia per raggiungere banche, uffici e sedi di aziende multinazionali. Il centro storico è pulito, le strade non sono tappezzate di cartacce. Tutti sul posto di lavoro, alle 8 precise. L’impiegato pubblico sta dietro al suo sportello e se la fila dell’utenza è più lunga del previsto, la gente giustamente protesta. Paga le tasse ed esige servizi adeguati. Alle 10 del mattino non c’è “la pausa caffè” durante la quale un piano intero si svuota per ciacolare davanti alle macchinette.
Nonostante ciò a Milano non sono tutte rose e fiori. La periferia è quasi sempre abbandonata a sé stessa, bande di ladri entrano ed escono dalle villette per svaligiarle mentre i loro proprietari siedono ignari davanti alla televisione. In alcuni comuni dell’hinterland è ancora peggio, tra i palazzoni popolari innalzati negli anni Settanta spadroneggiano bande di latinos che si contendono il campo con la malavita organizzata che da anni ha impiantato qui le proprie radici. Non è un caso che interi consigli comunali siano stati sciolti dal prefetto e mandati a casa per conclamate infiltrazioni di stampo mafioso.
Ma se qualcuno si azzarda a chiedere il pizzo – cosa che avviene sempre più spesso, in periferia – il commerciante si rivolge subito ai carabinieri. Non è raro che i giornali locali escano con titoloni in prima pagina per denunciare gli improvvisi incendi che distruggono capannoni industriali, realtà produttive, negozi di periferia o automobili parcheggiate. Incendi che non devono essere classificati, come qualcuno vorrebbe, “autocombustione”.
Il giorno dell’inaugurazione di Expo le bande dei black bloc devastarono il centro storico di Milano. L’indomani gli abitanti dei palazzi i cui muri erano stati imbrattati scesero sui marciapiedi con ramazze e spazzoloni per ripulirli. La gente aiutò i dipendenti della nettezza urbana a togliere l’immondizia dalle strade. In 20mila sfilarono poi in corteo per dire no alla violenza. “Nessuno tocchi Milano” lo slogan ripetuto da tutti, piccoli e grandi. “Milano nessuno la deve toccare perché Milano si ribella. La città oggi, ieri e l’altro giorno è e sarà al centro del mondo e noi ne siamo orgogliosi”, disse il sindaco subissato dagli applausi.
Eppure non c’è un “Modello Milano”, come non esiste un “Modello Roma”. Esiste invece un “Modello Italia”, che ciascuno di noi deve portare nel cuore. Nel settembre 2014 siamo riusciti a raddrizzare la Costa Concordia, a farla galleggiare, e a trasportarla dall’isola del Giglio al porto di Genova, dove la stanno smantellando. Avevamo gli occhi del mondo puntati addosso. Abbiamo compiuto – noi italiani – un’operazione che altrove non sarebbero stati in grado di realizzare.
Dobbiamo andarne fieri, perché questo è il “Modello Italia” che dobbiamo esportare nel mondo. Oltre Roma, oltre Milano.
Ferruccio Pallavera
direttore de Il cittadino (Lodi)