“Siamo ancora in mezzo al guado”. Nel luglio scorso l’Alleanza contro la povertà commentava con queste parole i nuovi dati diffusi allora dall’Istat. Forse è proprio l’immagine che sintetizza più efficacemente lo stato della società italiana nel 2017, vista attraverso la lente delle molte ricerche che hanno provato a scandagliarne la realtà da diversi punti di vista. Un anno in cui la ripresa registrata inequivocabilmente dagli indicatori economici, in misura anche più consistente delle previsioni, non è riuscita ancora a incidere in modo decisivo nella vita delle persone e delle famiglie, almeno non nel senso di riequilibrare i danni inferti al Paese dalla Grande Crisi.
Così, se a gennaio l’Eurispes segnalava che metà degli italiani non riusciva ad arrivare alla fine del mese, a dicembre l’Istat annunciava che il reddito medio era tornato a crescere in termini reali per la prima volta dal 2009.
Ma a spingere in alto la media era l’exploit dei redditi più elevati, mentre la distanza tra i più ricchi e i più poveri risultava addirittura in aumento.
In Italia, lo ha ricordato il Rapporto della Caritas su povertà giovanili ed esclusione sociale, vivono in condizione di grave povertà 4 milioni e 742 mila persone. L’Istat ha rilevato che la popolazione a rischio di povertà ed esclusione sociale è aumentata fino a toccare quasi un terzo degli italiani e nel Mezzogiorno è poco meno della metà del totale. Famiglie con più figli e minori sono coloro che pagano il prezzo più alto, con gli immigrati che in tutte le condizioni mostrano tassi di povertà sistematicamente più alti degli italiani, come indicano concordemente tutte le rilevazioni, tanto che il Censis addita il pericolo di una “etnicizzazione della povertà assoluta”.
Tamponata l’emergenza sbarchi – con modalità su cui molto si discute anche a livello internazionale – le analisi degli istituti di ricerca ci mostrano il vero volto del problema degli immigrati, che è quello dell’integrazione.
Le condizioni di vita degli immigrati hanno cominciato a pesare anche sui loro comportamenti demografici, ormai ben lontani dal compensare il persistente calo delle nascite che ha registrato – dati Istat alla mano – l’ennesimo minimo storico. Con un’aggravante segnalata dall’Istituto di statistica: la gran parte del calo non è dovuta alle scelte delle persone, ma al fatto strutturale che sono sempre di meno le donne in età fertile. L’invecchiamento della popolazione è paradossalmente causa di se stesso.
Il rovescio della medaglia è il disagio in cui si ritrovano a vivere i giovani. Tutti i rapporti segnalano che il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è tra i più alti in Europa. I dati più recenti dell’Istat indicano qualche variazione positiva, ma rilevano anche il boom dei contratti a termine, giunti al livello più alto dal 1992, quando sono iniziate le misurazioni. Il problema dunque non è solo il lavoro, ma anche la qualità del lavoro. Non è un caso che l’Italia sia il Paese dell’Ue con la più elevata presenza di neet, coloro che non studiano né lavorano. “I figli stanno peggio dei genitori, i nipoti stanno peggio dei nonni” e per questo – sottolinea il rapporto della Caritas – “il futuro di molti giovani in Italia non è serenamente proiettato verso l’avvenire”. “Il futuro è rimasto incollato al presente”, dice con altre parole il rapporto annuale del Censis. E il fatto che l’ascensore sociale sia bloccato o funzioni soltanto in discesa, genera “rancore” a livello collettivo.
Ad alimentare questo rancore, che ha come principale bersaglio il mondo della politica, è anche la percezione del persistere di fenomeni corruttivi diffusi a tutti i livelli.
Probabilmente i dati sulla corruzione percepita – stimati da Transparency International – vanno presi con molta cautela, come avvertono gli stessi autori del rapporto presentato all’inizio del 2017, secondo il quale solo Grecia e Bulgaria erano messe peggio di noi in Europa. Ma più recentemente una massiccia rilevazione dell’Istat (sono state intervistate 43 mila persone) ha confermato che comunque la corruzione resta una piaga molto grave. Lo stesso presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, presentando il rapporto annuale dell’Anac ha messo in luce i tanti risultati positivi ottenuti, ma ha anche osservato che effetti generalizzati si potranno avere solo nel medio e lungo periodo.
Ma tra chi sta molto male e chi ha ripreso a stare molto bene, che cosa c’è? Crisi economica e blocco della mobilità sociale hanno reso inservibile quell’idea di classe media in cui per decenni tanti italiani si sono fieramente rispecchiati. Eppure il Censis rileva che il 78,2% si dichiara molto o abbastanza soddisfatto della vita che conduce. E’ una soddisfazione di piccolo cabotaggio, se nell’immaginario collettivo al primo posto ci sono i social network e i tatuaggi si collocano davanti alla casa di proprietà. Un “coccolarsi di massa” molto individualistico e senza “spinta propulsiva”.
L’illusione di poter attraversare il guado da soli o come insieme di monadi senza coesione trova riscontro anche nel potente riaffacciarsi degli egoismi locali e della retorica della contrapposizione Nord-Sud. Il nostro Mezzogiorno vive in maniera drammaticamente più acuta i problemi della disoccupazione, del calo demografico (con la nuova emigrazione) e della povertà. Ma, come ha documentato lo Svimez nel suo rapporto annuale, resta agganciato alla ripresa nonostante il crollo degli investimenti pubblici che hanno toccato il minino storico e che, calcolati pro-capite, sono inferiori a quelli del Nord. Del resto, il 14% del Pil delle regioni settentrionali è dovuto a consumi e investimenti del Meridione e il surplus dei depositi bancari al Sud – la bellezza di 5 miliardi di euro – finisce per finanziare l’economia del Centro-Nord. E allora? Il Paese non crescerà se non insieme, scrivevano i vescovi italiani nel lontanissimo 1989. Quanto futuro c’è, in quel titolo.
Stefano De Martis