Qualche giorno fa la notizia della clonazione, ad opera di scienziati dell’Istituto di Neuroscienze dell’Accademia delle Scienze di Shanghai (Cina), di cinque esemplari di scimmia macaco, con la stessa tecnica usata nel 1997 per la pecora Dolly.
Si dirà: dopo l’avvenuta clonazione di pecore, cavalli, topi, maiali e altre scimmie, dove sta la novità di questo esperimento? Questa volta non si tratta di normali scimmie, ma di esemplari geneticamente modificati per essere “malati” in modo programmato, così da poter essere utilizzati come modelli di studio per alcune specifiche patologie umane.
L’esperimento si è composto di due fasi. Nella prima, ad alcuni embrioni di macaco ottenuti con fecondazione in vitro è stato modificato il Dna (con la recente tecnica “Crispr/Cas9”), “silenziandone” un gene, chiamato BMAL1, che regola, insieme ad altri fattori, il ritmo biologico circadiano (ciclo sonno-veglia). Di conseguenza, una volta nate, queste scimmiette hanno cominciato a manifestare disturbi di vario tipo (non solo insonnia, ma anche squilibri ormonali, ansia, depressione e comportamenti simili alla schizofrenia), legati appunto all’alterazione del ritmo circadiano.
La seconda fase è consistita nella clonazione di uno di questi esemplari affetto da disturbi del sonno, mediante la tecnica del “trasferimento nucleare”. In parole povere, i ricercatori hanno prelevato i nuclei di alcune sue cellule adulte (fibroblasti), trasferendoli poi in ovociti di scimmie “donatrici”, privati del loro nucleo originale. Con questa procedura sono stati alla fine ottenuti 325 embrioni di macaco con Dna nucleare identico a quello della scimmia geneticamente modificata. Questi sono stati quindi trasferiti in utero in 65 scimmie “surrogate” e, alla fine, sono venuti alla luce cinque cuccioli di macaco, ovviamente affetti anche loro da disturbi del ritmo circadiano.
Ma perché ricorrere proprio alla clonazione? Per essere certi di ottenere – peraltro con costi contenuti – animali geneticamente omogenei e confrontabili, proprio perché clonati (quindi con caratteristiche genetiche identiche), su cui poter studiare le malattie, senza dipendere da variabilità genetiche, inevitabili se si utilizzassero esemplari non clonati.
Fin qui i fatti. Ma non v’è dubbio, però, che questo esperimento – a cui, con ogni plausibilità, ne seguiranno presto altri analoghi – riproponga una serie di domande, di senso e di valore. Al centro, ancora una volta, torna anzitutto la questione dell’uso, fino al sacrificio, degli animali nelle sperimentazioni con finalità mediche. Fino a che punto e a quali condizioni si può ritenere eticamente lecita questa prassi, ritenuta tuttora irrinunciabile dalla gran parte della comunità scientifica? Nel caso che stiamo considerando, poi, si è trattato di generare animali (per di più primati) intenzionalmente “malati”, con disturbi fortemente legati alla loro dimensione psichica e, quindi, alla loro capacità di percepire sofferenza.
Chi sostiene l’eticità e la necessità di questi metodi, considerando gli animali come viventi di valore inferiore a quello degli esseri umani, evidenzia come il ricreare modelli di malattia in essi (in vari modi, incluse le modificazioni genetiche) possa consentire agli studiosi di comprendere come una patologia si sviluppa nell’uomo e quali farmaci o tecniche possono curarla. Ancora meglio se si tratta di scimmie, filogeneticamente più simili agli esseri umani. Al contrario, chi contesta queste prassi sperimentali, spesso riconosce agli animali un valore pari o simile a quello degli umani, con il conseguente “diritto” a non essere usati strumentalmente per benefici non loro, soprattutto quando ciò comporti per loro dolore, sofferenza, malattia o morte.
Di sicuro
c’è una cosa: per elaborare ed esprimere un giudizio sensato, ancora una volta
occorre “indossare gli occhiali” di una visione antropologica adeguata e
coerente, che certo non teme di essere ridimensionata dal riconoscimento del
valore intrinseco degli animali (ciascuno secondo la propria specie e le
proprie caratteristiche), un valore che è distinto e irriducibile alla loro
eventuale utilità per gli interessi umani. Ne consegue il principio etico che anche
gli animali devono essere trattati sempre in modi rispettosi del loro valore
intrinseco proprio, soprattutto quelli che sembrano dotati di barlumi di
autocoscienza (es. scimmie antropomorfe). Ciò comunque non esclude, almeno in
linea di principio, la possibilità di usare (inclusi gli interventi di editing genetico)
gli animali per finalità diagnostiche o terapeutiche a beneficio umano, ma nel
rispetto di alcune imprescindibili esigenze etiche. Anzitutto l’impegno a non
danneggiare l’ambiente e l’ecosistema introducendo squilibri tra le specie
viventi. Nel caso di modifiche genetiche, quindi, va comunque preservata
l’identità genetica complessiva degli animali trattati. Va poi assicurata
l’attenzione al benessere degli esemplari impiegati, limitando al massimo –
nella misura del possibile – che provino stress, dolore, sofferenza e angoscia.
Va anche minimizzato il più possibile il numero degli animali utilizzati nelle
sperimentazioni e ogni protocollo sperimentale sull’animale deve essere sottoposto
a valutazione da parte di un comitato etico competente.
Tutto ciò sarà stato rispettato dagli scienziati cinesi che hanno clonato le
scimmiette?
Maurizio Calipari