“Senti, profumo di felicità: è la Grecia. La gente qui è immobile. Si prende il tempo di guardarci passare. Sai, ho lavorato molto, per tutta la vita, però con i miei tempi, lentamente. Non ho mai cercato di fare i soldi né di avere la fila di clienti, no. La lentezza: è questo il segreto della felicità”: così Monsieur Ibrahim confessa al suo figlio adottivo Momo, nel celebre film Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano.
A questa lentezza, a questa immobilità siamo stati ricondotti in maniera improvvisa e soprattutto drammatica. Le nostre piazze e le nostre strade sono diventate deserte, gli impegni sull’agenda sono stati cancellati, la corsa dei giorni e la fretta è cessata di colpo. Si sono affollati gli ospedali e, tristemente, i freddi obitori, mentre il gelo della morte, in alcune città, ha riempito le chiese e i luoghi predisposti ad accogliere i morti.
Il ritmo della nostra quotidianità è mutato: e con esso i luoghi in cui trascorrere i giorni. Si sta in casa. E lì si può vivere come in una gabbia. Oppure danzare la melodia dei giorni: “quando tu balli, il cuore canta. E poi sale in cielo”, insegna ancora mons. Ibrahim.
I cristiani vivono questo tempo con speranza, con dedizione, umile e grata, a quella monotonia dei giorni che forse anch’essi, travolti dalla corsa del mondo, avevano smarrito. Le comunità soffrono l’assenza dell’eucaristia domenicale che le fonda: e le tanto discusse dirette sono un mezzo per sentirsi uniti, nell’attesa di tornare a comporre l’assemblea celebrante. Si prega in casa, riscoprendola in tal modo come Chiesa domestica.
Così il presbitero, che celebra “sine populo”, nel dolore dell’assenza fisica dell’assemblea vive anche lui, come tutti, la liturgia domestica. Non si tratta di creare un’alternativa temporanea, ma di tornare a considerare i tempi e i luoghi dell’incontro con Dio: l’ascolto personale e comunitario della Parola, nelle chiese come in casa, la Liturgia delle Ore, la cura dell’altro, il lavoro, il riposo. Tutto diviene preghiera, sostenuto dalla Parola: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. (in greco logikḗ)” (Rm 12,1). Ogni gesto è preghiera, insegna L. M. Chauvet nel suo prezioso Simbolo e sacramento. Nella piccola fraternità della Casa del Libro e dell’Ascolto il giorno inizia presto, per me e fratello Mario, con l’ascolto della Parola e la preghiera dei Salmi. Il silenzio avvolge il lavoro: la sistemazione dei libri, lo studio, i lavori in casa, il prendersi cura di chi ha bisogno. Le ore sono scandite secondo un ritmo quasi monastico. A mio parere, il silenzio non è mai abbastanza. E il conflarsi di relazioni a lungo andare rischia di generare indifferenza o cinismo. Nelle relazioni, la presenza è necessaria tanto quanto la giusta distanza. Il mancarsi rivela la verità del desiderio e prepara alla bellezza dell’incontro che genera vita: “(Gesù) quand’ebbe dunque sentito che (Lazzaro) era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava” (Gv 11,6).
Certamente, la sobrietà è faticosa, ma necessaria. Il nostro tempo era diventato bulimico, ma è vero che “«Tutto mi è lecito!». Ma non tutto giova” (1Cor 6,12a). Condividiamo, allo stesso tempo, la preoccupazione per il pane quotidiano e per il domani. Il dono di quanto si ha per vivere al tesoro del Tempio che è il fratello e la sorella in difficoltà (cfr Mc 12,44), non la semplice solidarietà, contraddistingue la vita dei cristiani che si sforzano di vivere il Vangelo. Probabilmente, ci si ritrova con le tasche vuote, ma non è forse scritto che “il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate” (Mt 6,8)?.
Il modello è Cristo, il quale “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). Certamente – si obietta – bisogna essere prudenti: tuttavia, se fossero stati eccessivamente prudenti, non ci sarebbero stati i santi, per i quali – come mi ha insegnato don Orazio Finocchiaro – non vale l’adagio “in medio stat virtus”. E bisognerebbe convertire l’idea di santità!
Il Padre del cielo conosce le nostre necessità. E in questi giorni, leggendo dell’esodo di Israele, ascoltiamo quanto Dio rivela di sé: “Io stesso ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano” (Es 3,9). Le nostre preghiere non sono atti magici che cambiano la realtà, né bisogna pregare per placare un Dio adirato. La natura e la storia, per una volontà di amore, dal momento in cui sono state create, sono autonome da Dio. L’amore, quello vero, non opprime, non dirige le fila di chi ama, come il burattinaio. Dio non è un tappabuchi. Noi preghiamo per entrare in relazione con Dio, per sentirlo piangere accanto a noi, lui che in Gesù è morto per noi e come noi. Gridiamo a Lui “dove sei?” per ritrovare un senso che difficilmente riusciamo a dare a questi dolori ed alla morte.
Come presbiteri, e ancor prima come cristiani, nella fatica e nella speranza, diffondiamo questo lieto annuncio, proprio di una fede che ha perduto le sue buone ragioni e alla quale rimane solo il corpo (ancora L. M. Chauvet), che Dio non può strappare alla morte e che restituisce alla vita (consì riteneva G. Barbaglio).
La quotidianità è allora come la danza sufi di mons. Ibrahim, lì dove si gira attorno al cuore, lì dov’è Dio, e si perde la pesantezza chiamata equilibrio. Questa è la preghiera del quotidiano, la preghiera delle case e della casa grande che è la Chiesa, la casa della comunità. L’adorazione in spirito e verità si compie nei giorni, lì dove l’uomo vive pienamente e nulla lascia cadere, nessuna gioia, nessun dolore: “Di notte, di notte vengono gioia e dolore, e prima di quanto tu pensassi, ti lasciano l’una e l’altra, e al Signore vanno a dire come tu li abbia sopportati” (Lied di Hugo Wolf citato da D. Bonhoeffer nella lettera ai genitori spedita da Tegel il 5 aprile 1943).
Carmelo Raspa
S. Giovanni Bosco, 1 aprile 2020