Il presidente Franco Miano ha sottolineato le cifre caratterizzanti l’Azione Cattolica: “Unitarietà, intergenerazionalità, stile familiare e discernimento comunitario”. Le relazioni di don Giacomo Canobbio e dei professori Stella Morra, Salvador Pié-Ninot e Marco Ivaldo.
“Il Concilio è ancora davanti a noi, laici associati impegnati per l’evangelizzazione e per la formazione cristiana delle coscienze”. Così Franco Miano, presidente dell’Azione Cattolica italiana, è intervenuto oggi alla Domus Mariae di Roma al XXXIV convegno Bachelet sul tema “Il futuro dalla forza del Concilio. Il Vaticano II e l’Azione Cattolica”.
Una grande lezione di speranza. Punto di partenza della riflessione del presidente, “la responsabilità laicale dell’associazione, che diventa corresponsabilità in ogni campo della vita e dell’intera missione della Chiesa, nello stile della partecipazione e del coinvolgimento”. Nell’ottica associativa la dimensione sociale dell’evangelizzare poggia sulla “territorialità” e sulla “formazione, con la persona al centro”. “Unitarietà, intergenerazionalità, stile familiare e discernimento comunitario” rimangono le cifre caratterizzanti l’Ac, che ribadisce il proprio impegno a “operare nel tempo interpretandone i segni, all’insegna della cultura dell’incontro”. Il Concilio, ha concluso Miano, ci ha lasciato una “grande lezione di speranza”: il nostro stile di vita deve essere improntato non a “un ottimismo superficiale e ingenuo”, ma alla luce di quella “storia umana che vede presente lo Spirito del Signore Gesù”.
Non solo apostolato della gerarchia. Sulla presenza dell’associazione nei documenti del Concilio Vaticano II si è soffermato don Giacomo Canobbio, docente di teologia sistematica alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, evidenziando “lo stretto legame tra Ac e gerarchia, che si inscrive nella generale comprensione della missione della Chiesa”. Il riconoscimento di forme di associazioni come l’Ac richiama, pertanto, due aspetti correlati: “La missione della Chiesa è di carattere spirituale”, ossia tesa a permeare l’umanità con il Vangelo, e “le associazioni che si dedicano a tale missione manifestano maggiormente lo scopo della presenza della Chiesa nel mondo”. L’Azione Cattolica, ha aggiunto, “si rispecchia nel dettato conciliare: la cooperazione con l’apostolato della gerarchia non toglie niente alla propria responsabilità, offre un contributo alla gerarchia, privilegia la struttura episcopale rispetto a quella carismatica, si pone a servizio della formazione di cristiani laici che si assumono responsabilità; mostra, infine, uguale dignità di tutti i fedeli e della vocazione cristiana come partecipazione alla missione della Chiesa, della quale l’apostolato della gerarchia è solo una parte, ma non il tutto”.
Dare corpo alla Parola. Nonostante il Concilio ci abbia “restituito la Parola”, contribuendo a diffondere l’idea che “un cristiano non può stare senza una Bibbia in mano”, “nelle nostre chiese si sentono parole sincere ma non vere, che non dicono granché all’esperienza della storia”, ha evidenziato Stella Morra, docente di teologia alla Pontificia Università Gregoriana. A cinquant’anni dal Concilio, così, “le nostre parole non sono in grado di farsi corpo. Non stiamo assistendo a una crisi della fede ma della capacità di darle parola e corpo”. Vera sfida, secondo Morra, vincere la “tentazione dell’estenuante funzionalità pastorale” per conferire “forma strutturale alla fede” in una “ricezione del Vaticano II nel senso della partecipazione”. Sul ruolo del laicato si è soffermato Salvador Pié-Ninot, docente di teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana, secondo il quale con il Concilio “il laicato è passato da soggetto suddito a soggetto protagonista”.
La “scelta religiosa” per attuare il Concilio. “Atti fondamentali che l’Ac ha posto nella Chiesa del Concilio”, perMarco Ivaldo, docente di filosofia morale all’Università di Napoli, sono stati la “ricezione dell’insegnamento del Concilio, l’ermeneutica del suo messaggio e l’applicazione, ancora in fieri, della sua visione e dottrina”. La “scelta religiosa”, che Bachelet designava come “fondamentale”, esprime il percorso di Ac “nella re-identificazione e nel rinnovamento di sé, in un programma di attuazione del Concilio”. Con quella scelta “risuonava l’invito a ritrovare la radice della fede e a vivere l’essere cristiani con coerenza”. Veniva, così, “escluso un uso ideologico e politico del cristianesimo” e auspicata “una Chiesa generatrice di senso a partire dall’annuncio del Vangelo, più che una cattedra di prescrizioni morali poco radicate nell’esperienza concreta del vivere”: non, dunque, “una parola chiusa nel passato, ma un principio vivo nella Chiesa del Concilio, del quale l’Ac è e resta segno e strumento fecondo”.
Lorena Leonardi