Slovacco e frate cappuccino, mons. David B. Tencer è il vescovo della diocesi di Reykjavík. Era arrivato in Islanda nel 2004 per fare il viceparroco nella parrocchia Santa Maria Stella Maris, nella capitale islandese; è stato poi trasferito alla parrocchia di San Thorlac a Reyðarfjörður. Nel 2015 l’ordinazione episcopale. La diocesi, ricostituita da Paolo VI nel 1968, occupa tutto il territorio dell’isola d’Islanda e appartiene alla Conferenza episcopale dei Paesi scandinavi. È abitata da circa 14mila cattolici, il 4% della popolazione (gli islandesi sono 334mila circa). Erano circa 900 nel 1960 poi sono arrivati tanti immigrati da Paesi cattolici, come Polonia, Filippine, Lituania. Oltre alla cattedrale di Cristo Re, ci sono sei chiese parrocchiali, 15 sacerdoti, di cui cinque religiosi. Ci sono anche tre congregazioni maschili e quattro femminili, distribuite in cinque conventi. Una vita minuscola ma piena di attenzioni: dalla Caritas al teatro per bambini, dal movimento pro-vita all’associazione che si occupa della dipendenza da alcool, dai missionari della carità ai neocatecumenali, dai carismatici ai focolarini. E per mons. Tencer un obiettivo: mostrare che “la fede non è un hobby della domenica mattina, ma è uno stile di vita”.
Come è finita la vicenda della proposta di legge per rendere illegale la circoncisione maschile?
Non è ancora finita in realtà, perché la proposta di legge è ancora in discussione, ma grazie a Dio si sono interessati tanti, anche dall’estero e anche voi, giornalisti, ne avete scritto. Grazie! Così abbiamo visto che non siamo rimasti da soli e che non era solo una nostra preoccupazione. È stata una proposta un po’ artificiale, non era all’ordine del giorno del governo. A me è parso che se ne sia un po’ approfittato per affrontare il tema più vasto della libertà religiosa e del rapporto tra religioni e leggi statali. Secondo alcuni, le regole religiose influenzano anche la vita di quelli che non credono in niente. In realtà è il contrario e chi non crede vuole influenzare in modo illecito la vita di chi crede. In realtà a me non sembra che sia un problema così grande.
Una Chiesa così piccola, come quella islandese, come riesce a farsi sentire nello spazio pubblico?
Noi non siamo così piccoli! La popolazione non è molto numerosa ma noi siamo il 4%, la percentuale più consistente di tutti i Paesi nordici.
Non cerchiamo lo scontro, ma è chiaro che quando qualcosa ci tocca, lo diciamo e non viviamo la nostra fede solo dentro i muri della chiesa,
perché la fede non è un hobby della domenica mattina, ma è uno stile di vita.
Nel 2017 avete lanciato un sondaggio on line per verificare la situazione delle parrocchie e lanciare un processo che portasse alla definizione di un piano pastorale per la diocesi. A che punto è il cammino?
Stiamo concludendo il lavoro materiale, ma questo cammino ha già smosso tante cose nella nostra diocesi. Abbiamo accolto varie proposte e la comunità cattolica, ma anche tutto quello che le è vicino, ha iniziato a pensare di più. Ad esempio i laici hanno iniziato a capire che le cose della Chiesa riguardano anche loro e ad interessarsi. Per esempio abbiamo fatto un incontro di giovani la Domenica delle Palme e sono venuti in 100: l’anno scorso erano venuti in 40 e io penso sia un frutto di questo lavoro. È una grande differenza di numeri ma anche di interesse. Grazie al progetto adesso abbiamo anche due seminaristi che studiano in Polonia e che vogliono venire a servire nella nostra diocesi! È un altro frutto pastorale reale.
Lei era arrivato in Islanda per fare il missionario e ora fa il vescovo. È cambiato tutto?
La missione è parte di ogni vocazione nella Chiesa: essere cristiano significa essere missionario. Certo anche il vescovo deve essere un missionario e far vedere la propria fede anche all’esterno. Quando abbiamo fatto l’incontro dei giovani, Unnur Gunnarsdóttir, la coordinatrice per la catechesi, ha proposto questa attività: dopo la recita del rosario abbiamo lasciato salire al cielo una corona del rosario formata con i palloncini gonfiati. Qualcuno ha telefonato a Unnur dicendo che avevano visto quella corona di palloncini volare in Groenlandia, a 300 chilometri da noi. Questo è lo scopo dell’essere missionari: non basta invitare le persone in chiesa per far vedere chi siamo, ma anche fuori si deve vedere come vivono i cristiani.
Quali sono i bisogni in Islanda?
Una cosa che tutti dicono è che in Islanda si sta molto bene materialmente, è un Paese ben organizzato, anche per quel che è il sistema sociale e l’assistenza ai poveri, ma vediamo che questo non è sufficiente. È necessario pensare ad avere più luoghi dove siamo presenti realmente e più persone. Per questo
stiamo cercando di aiutare le nostre vocazioni e la costruzione delle Chiese.
Anche se viviamo in una società così ricca la Chiesa è povera, perché non riceviamo tanto sostegno dallo Stato. Non abbiamo bisogno solo di sostegno materiale, ma anche di preghiere e soprattutto di trovare persone che offrano la propria vita per la missione nei Paesi nordici, che ormai sono un po’ dimenticati rispetto al loro bisogno di fede e di religione. E ringrazio tutti coloro che cercano di aiutarci!
Sarah Numico