In queste ultime settimane, ancora una volta, mi è stata concessa la grazia di accompagnare un parrocchiano nella fase terminale della sua malattia. La cura pastorale degli infermi rientra in uno dei doveri fondamentali e prioritari del parroco. Al n.35 dei praenotanda al Rito dell’Unzione degli infermi, si legge: “Si ricordino i sacerdoti, e soprattutto i parroci, che è loro dovere visitare personalmente e con premurosa frequenza i malati, e aiutarli con senso profondo di carità”.
In queste settimane, con Antonio (il nome del parrocchiano ammalato), si è instaurato un rapporto umano e spirituale profondissimo. La sua relativa giovane età (64 anni), lo ha portato a porsi le domande fondamentali (quelle che in filosofia si chiamano “sul senso ultimo”), sulla vita, sulla morte, sul dolore, sulla sofferenza, sull’aldilà. Domande a cui, non sempre, riusciamo a dare esaustive risposte, perché appartengono all’ordine di un mistero che risulta essere molto più grande di noi.
La grazia dei sacramenti, però, lo ha giorno dopo giorno, portato ad uno stato d’animo che lo ha disposto al grande viaggio con lucida serenità. Il mistero del dolore e della sofferenza, infatti, può essere letto e interpretato solo alla luce del Signore Gesù, servo sofferente e crocifisso. Dalla croce, apparente sconfitta, trova senso e compimento il dolore e la sofferenza.
Il senso della sofferenza
“L’umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo. E contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine: è stata legata all’amore, a quell’amore del quale Cristo parlava a Nicodemo, a quell’amore che crea il bene ricavandolo anche dal male, ricavandolo per mezzo della sofferenza, così come il bene supremo della redenzione del mondo è stato tratto dalla Croce di Cristo, e costantemente prende da essa il suo avvio. La Croce di Cristo è diventata una sorgente, dalla quale sgorgano fiumi d’acqua viva. In essa dobbiamo anche riproporre l’interrogativo sul senso della sofferenza, e leggervi sino alla fine la risposta a questo interrogativo”. (Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Salvifici doloris, n. 18).
Non occorre essere illuminati teologi per accostarci con queste disposizioni accanto all’uomo che soffre; occorre essere innanzitutto umani ed entrare in empatia con il fratello o la sorella gravati dalla malattia. Consapevoli dei limiti dell’umana ragione che non sa darsi soddisfacenti risposte, l’esperienza della fede risulta essere l’unica capace di dare un senso profondo e, contemporaneamente, offrire una speranza ultraterrena. Miracolo non è solo la guarigione dalla malattia, miracolo è saper accettare lo stato di malattia, è imparare a comprendere seriamente che tutto ciò che è umano finisce e imparare a fissare “lo sguardo sulle cose invisibili che sono eterne” (2Cor 4,18).
La cura pastorale degli infermi priorità del sacerdote
Da non sottovalutare, infine, che la presenza del parroco diventa anche un supporto per i familiari. Una presenza discreta e non invadente, fatta di comprensione e di equilibrio, per non destabilizzare quanto risulta essere già precario, senza essere maestri di dottrina, né facili spiritualisti, se prima non abbiamo versato sulle ferite, come il buon samaritano, “l’olio della consolazione e il vino della speranza”.
Antonio ormai vive in “quella casa non costruita da mani di uomo, ma da Dio direttamente” (2Cor 5,1), in me resta ancora una volta la gratitudine al Signore per avermi messo sul mio cammino un fratello con cui condividere un tratto di strada accidentato, ma illuminato dalla certezza che la parola della croce non è parola ultima, ma penultima, perché laddove gli uomini avevano scritto la parola “fine” , Dio – nella risurrezione del Figlio – ha scritto la parola “principio” di una vita nuova e eterna!
Don Roberto Strano