Nel 1999 con “Matrix” hanno rivoluzionato il genere della fantascienza. Quel film, infatti, ha spostato in avanti l’immaginario cinematografico e l’uso degli effetti speciali (con l’introduzione del “bullet ballet” – lo slow motion delle scene d’azione riprese da più punti di vista – che è diventato, poi, di uso comune). Si era parlato di un’opera che richiamava la filosofia platonica (per la dicotomia tra il mondo immaginario di “Matrix” – il mondo delle ombre – e il mondo reale – dominato dalle macchine e in cui l’uomo è ridotto in schiavitù), che univa abilmente filosofia New Age (il taoismo mischiato alle arti marziali orientali) e richiami cristologici (il protagonista, Neo, l’”eletto”, si sacrifica per la salvezza dell’umanità), e che realizzava in maniera sempre più completa la forma postmoderna dei nuovi prodotti cinematografici contemporanei (per la ridondanza dei suoi effetti audiovisivi, per il continuo citazionismo, per lo sguardo disincantato con cui si rivolge allo spettatore).
La pellicola dei fratelli Wachowski aveva segnato una data fondamentale per il cinema contemporaneo, non solo di fantascienza. È stato campione assoluto di incassi e, per primo, ha iniziato a sfruttare la cross-medialità del mercato cinematografico: contemporaneamente ai tre film sono usciti il videogioco, gadget di tutti i tipi, serie per il web. Una modalità di sfruttamento dei prodotti culturali che oramai è diventato uno standard. Ebbene, girare un nuovo film di fantascienza dopo aver dato vita a “Matrix” è estremamente complesso. Ma i fratelli Wachowski non si sono lasciati spaventare dalla presenza ingombrante di quella pellicola. E già nel 2012 hanno girato “Cloud Atlas”, opera complessa, riflessione filosofica (o più che altro filosofeggiante) sul senso delle nostre esistenze, che intreccia piani temporali distanti, dall’antico Egitto al futuro remoto. Un film che non ha ottenuto il successo sperato, perché considerato confuso e oscuro. Oggi ci riprovano con una pellicola di fantascienza più smaliziata, a tratti umoristica e giocosa, che si rifà al cinema degli anni Ottanta (quello di “Star wars”, per intenderci), in cui l’attenzione è tutta sull’aspetto visivo (le ricostruzioni degli ambienti dei mondi fantascientifici) e sulle tecniche sorprendenti del 3D. Si tratta di “Jupiter”. Il destino dell’universo, in cui, a differenza di “Matrix”, l’eroe è una giovane donna.
Jupiter, figlia di immigrati russi, pulisce i bagni per vivere, sogna un domani migliore ma nel suo presente dorme in una stanza con i suoi parenti e non pensa di valere più del lavoro che fa. Un giorno, a sorpresa, in un salvataggio rocambolesco scopre di essere l’oggetto del desiderio di una famiglia di nobili alieni e viene così rapita da quello che diventerà il suo oggetto del desiderio, un mercenario mezzo uomo-mezzo cane. Dopo aver passato in rassegna i tre fratelli del nobile casato che si litigano la sua amicizia, per interesse scoprirà di poter finalmente lottare per se stessa assieme al suo cavaliere. C’è di nuovo la coltivazione e il consumo della razza umana al centro dell’immaginario dei fratelli Wachowski. Gli uomini sono una massa indistinta come piante in un campo, da predatori di risorse del pianeta (come la maggior parte della fantascienza li ha sempre immaginati) a risorse essi stessi, prede di altri coltivatori. La pellicola offre un intrattenimento visivamente attraente e narrativamente classico. Ma, ancora una volta, i due fratelli non sono riusciti ad eguagliare il loro capolavoro “Matrix”, offrendo uno spettacolo simile a tante altre, troppe, pellicole di fantascienza contemporanee.
Paola Della Torre