La comunità musulmana di Venezia è piccola e un po’ sopra le righe. Quando una sensuale parrucchiera sfratta la moschea per far spazio ad un salone di bellezza, la situazione precipita. L’arrivo di un giovanissimo imam afgano dovrebbe riportare l’ordine e invece sarà l’inizio di un nuovo cammino di convivenza.
“Pitza e datteri” è un’insolita commedia che affronta un tema problematico e complesso: quello della integrazione fra religione islamica e Occidente. Ambientata in una Venezia magica, da sempre culla di comunicazione fra culture differenti, la pellicola è l’opera seconda di un regista curdo che ha studiato a Teheran e ora vive fra Oriente e Occidente, Fariborz Kamkari. Un uomo che conosce, dunque, l’importanza dell’apertura e dell’ascolto fra realtà distanti per una convivenza pacifica. E che, come ha detto lui stesso, “ha voluto raccontare la maggioranza islamica moderata che c’è in Italia e di cui non si parla perché il risalto è dato ai piccoli gruppi fondamentalisti, purtroppo più tragicamente rumorosi”.
La sua opera prima, “I fiori di Kirkuk”, raccontava una storia drammatica: il genocidio della comunità turca da parte di Saddam Hussein. Una storia autobiografica in cui l’autore raccontava la tragedia silenziosa del suo popolo. Con questa opera seconda torna a narrare un tema personale ma decide di farlo con i toni della commedia, con un nuovo stile a metà tra la fiaba e la realtà, che cerca di ridere su argomenti su cui sarebbe impossibile ridere. E si cimenta con una favola multietnica ambientata in una Venezia lontana dagli stereotipi turistici, usando luci e colori per illuminare interni fatiscenti e fast food etnici, il negozio della parrucchiera come le calli della Serenissima.
La colonna sonora, firmata dall’Orchestra di Piazza Vittorio, fa da ulteriore collante e la lingua italiana è un esperanto fra stranieri nel Bel Paese (compreso l’unico italiano). Il film mostra come, a poco a poco, l’imam arrivato da lontano, all’inizio molto chiuso e critico nei confronti degli usi e costumi occidentali, si apra e impari ad accettare il bello che viene dal confronto e dalla comprensione reciproca. Fra i protagonisti, spicca Giuseppe Battiston, nobile decaduto che si è convertito alla religione islamica per dare un senso alla sua vita, ma che la interpreta in modo sbagliato. È grazie al suo personaggio che il film non rimane nell’ambito della commedia multietnica vagamente buonista. La parabola del veneziano Vendramin, convertito all’Islam e rinominato Mustafa, rende le cose più interessanti e meno politically correct. Il suo smarrimento identitario, dovuto più alla “protesta contro il sistema capitalistico corrotto”, le banche e le agenzie di riscossione che alla convinzione religiosa, è quello di un Paese che ha perso i propri punti di riferimento, insieme alle proprie radici, ed esige “rispetto per tutti, senza umiliazioni”. Inoltre, il suo personaggio racconta bene come il fondamentalismo prenda il sopravvento su persone deboli, disperate, che non hanno prospettive e vedono nell’integralismo l’unica forma di sopravvivenza.
La pellicola cerca di far sorridere sull’Islam e su alcuni suoi integralismi, soprattutto quelli contro le donne. Un’impresa ardua, visto che dall’attualità arrivano sempre notizie tragiche di lotte e scontri. Il ritmo comico non è sempre all’altezza, ma la narrazione è ricca di grazia, ironica ma mai condiscendente. E capace di far riflettere su temi fondamentali della nostra attualità.
Paola Dalla Torre