Commemorazione dei defunti / Senza una “cultura della morte” perdiamo il senso più profondo della vita

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La ricorrenza della Commemorazione dei fedeli defunti, per chi – come me – appartiene alla terra di Sicilia, ridesta emozioni uniche. Piu’ che un giorno triste in cui si ricordano i nostri cari che hanno concluso la loro esperienza terrena, era un giorno di festa indicibile. In ogni casa i “morti” avevano fatto visita, rallegrando, soprattutto i piccoli, con doni di varia natura: giocattoli, dolci, vestiario … Credo che non ci fosse lezione piu’ eloquente di quella, per dimostrare cristianamente che “ai fedeli del Signore la vita non e’ tolta, ma trasformata e mentre si distrugge la nostra abitazione sulla terra e’ preparata una dimora eterna nei cieli” (Prefazio I dei defunti).
Oggi la festa dei morti ha lasciato spazio, ahime’, all’americana festa di Hallowen, ma cio’ che piu’ intristisce e’ constatare come manchi una seria “cultura della morte”, che ci aiuti a ben vivere e serenamente affrontare questa realta’ che, per il solo fatto di essere nati, inevitabilmente ci appartiene. La morte e’ diventata sempre piu’ estranea, di essa conviene non parlarne. Nel suo bellissimo libro “Il tempo di morire” (Wojtek edizioni, 2019), Eduardo Savarese, Magistrato di Napoli, a pagina 162 scrive: ““Ben venga una vera cultura della morte! Non quella che cerca di nascondere la morte, di imbellettarla, di metterla a tacere, di ritardarla a tutti i costi, o di accelerarla per ragioni di comodo e di sostenibilita’ economica …”, egli aveva auspicato a pagina 24 che era necessario affrontare il tema della morte, perche’ “Chiudere gli occhi di fronte alla morte, non nominarla, non indagarla, illudersi di posticiparla indefinitamente e di liquidarla brutalmente non ci aiutera’”. Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che non si puo’ essere fautori del “ricordati che devi morire”, come una certa ascetica ci ha insegnato in tempi remoti, ma e’ pur vero che si e’ passati all’estraneita’ della morte, come se questa non ci appartenesse per nulla.
Per un cristiano, poi, la morte dovrebbe essere il momento atteso e bramato di poter vedere Dio “cosi’ com’e’” (1Gv, 3,2). La morte “squarcia la tela di un fondale dipinto per permetterci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde dietro” (Milan Kundera), per questo motivo e’ necessario che la morte “ci trovi vivi” (d. Tonino Bello), per poterla affrontare “faccia a faccia”.
C’e’ un racconto, o meglio una storiella, che permette in maniera eloquente di affrontare “vis a vis”, sorella morte. In essa si legge: << L’Angelo della Morte bussò un giorno alla casa di un uomo. “Accomodati pure” disse l’uomo. “Ti aspettavo”. “Non sono venuto per fare due chiacchiere”, disse l’Angelo, “ma per prenderti la vita”. “E che altro potresti prendermi?” “Non so. Ma tutti, quando giungo io, vorrebbero che io prendessi qualsiasi cosa, ma non la vita. Sapessi quali offerte mi fanno!”. “Non io. Non ho nulla da darti. Le gioie che mi sono state donate le ho godute. Mi sono divertito, ma senza fare del divertimento lo scopo della mia vita. Gli affanni, li ho affidati al vento. I problemi, i dubbi, le inquietudini li ho affidati alla provvidenza. Ho utilizzato i beni terreni solo per quanto mi erano necessari, rinunciando al superfluo. Il sorriso, l’ho regalato a quanti me lo chiedevano. Il mio cuore a quanti ho amato e mi hanno amato. La mia anima l’ho affidata a Dio. Prenditi dunque la mia vita, perché non ho altro da offrirti”. L’Angelo della Morte sollevò l’uomo fra le sue braccia e lo trovò leggero come una piuma. All’uomo la stretta dell’Angelo parve tenerissima. E il Signore spalancò le porte del Paradiso perché stava per entrarvi un santo>>.
Allora, anche noi, con San Paolo possiamo esclamare: “Dov’è, o morte, la tua vittoria?
Dov’è, o morte, il tuo pungiglione
? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!” (1 Cor 15,55-57).

Don Roberto Strano

 

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