Commercio di armi / Decisive le Chiese africane per affermare il principio di responsabilità

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Il documento internazionale, ratificato da 61 Stati e firmato complessivamente da 130, deve molto agli sforzi della società civile e dei cristiani del continente teatro di troppi conflitti sanguinosi. Ridurre questi scambi avrebbe effetti positivi sullo sviluppo, ma restano ancora pochi gli Stati africani aderenti (ad oggi solo 7 su 54).

Per il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, è un “passo storico” e significativa è stata anche la data: la vigilia di Natale ha segnato infatti l’entrata in vigore del trattato internazionale sul commercio di armi (in inglese ‘Arms trade treaty’ o Att). Ratificato da 61 Stati e firmato complessivamente da 130, il documento tenta di introdurre il principio della responsabilità nel settore – finora in larga parte senza regole – della vendita di armamenti: prevede, tra l’altro, che ogni Stato aderente renda conto pubblicamente delle vendite che effettua. Queste non potranno avvenire quando ci sarà il rischio di una violazione dei diritti dell’uomo, anche in maniera mediata, cioè se il destinatario finale è un Paese terzo o un movimento guerrigliero.

Chiese africane protagoniste. Il valore simbolico dell’entrata in vigore a ridosso del Natale, però, è doppio: le Chiese sono commercio armi - Copiastate infatti tra le più forti sostenitrici del nuovo trattato, soprattutto nei momenti in cui i negoziati rischiavano di fallire o procedevano a rilento, in particolare per le resistenze di tre grandi potenze mondiali, che sono anche tra le nazioni che più guadagnano da questo business: Stati Uniti, Russia e Cina. Ad oggi Washington ha firmato il documento, ma senza arrivare alla ratifica finale, mentre Mosca e Pechino non vi aderiscono. “È particolarmente importante”, però che l’Att sia stato ratificato da “cinque dei dieci più grandi esportatori d’armi al mondo: Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito”, aveva spiegato già ad aprile il reverendo Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio mondiale delle Chiese (Wcc nella sigla inglese), che raccoglie soprattutto denominazioni protestanti. Proprio il Wcc era stato – attraverso un’apposita campagna ecumenica – tra i sostenitori più attivi del trattato in Africa, come ha ricordato dal Sudafrica, all’indomani dell’entrata in vigore, Joseph Dube, portavoce dell’iniziativa. Il contributo africano al trattato è stato quello di “assicurare che le armi leggere e le relative munizioni vi fossero incluse”, ha spiegato Dube, specificando inoltre che proprio queste sono responsabili della morte di “centinaia di migliaia di persone” ogni anno, soprattutto nel continente nero.

 

Il sinodo del 2009 e la società civile. Da anni impegnata su questo fronte è, del resto, anche la Chiesa cattolica. Particolarmente forte fu l’appello lanciato durante il secondo Sinodo sull’Africa, nel 2009: nelle ‘proposizioni’ inviate a Benedetto XVI i padri sinodali sottolinearono come i flussi d’armi verso il continente fossero in aumento e auspicarono la fine del commercio illegale, una maggiore trasparenza di quello legale e soprattutto un embargo sulle armi leggere. Nella stessa sede era evidenziata anche “la stretta relazione tra lo sfruttamento delle materie prime, il commercio delle armi e un’instabilità mantenuta intenzionalmente”. Di qui l’appello ai governi africani perché aderissero all’Att, allora in discussione. A fare eco a queste proposte, negli anni, è stata innanzitutto l’esortazione apostolica postsinodale di Benedetto XVI, “Africae Munus”: questa cita esplicitamente, al paragrafo 21, “la ricerca dei responsabili di quei conflitti, di coloro che hanno finanziato i crimini e che si dedicano ad ogni sorta di traffici, e l’accertamento della loro responsabilità” come necessario accompagnamento della riconciliazione. Anche numerose altre organizzazioni e personalità della società civile si sono poste sulla stessa linea: tra loro i premi Nobel Desmond Tutu (arcivescovo anglicano sudafricano), Leymah Gbowee (attivista liberiana) ed Ellen Johnson-Sirleaf (presidente dello stesso Paese). Proprio Johnson-Sirleaf ha definito il trattato “un’opportunità di valore inestimabile per ridurre la violenza in Africa e nel mondo”. In effetti, le conseguenze positive per il continente – che ancora ospita crisi aperte come quella del Centrafrica, della Repubblica democratica del Congo, del Darfur e del Sud Sudan – potrebbero essere di enorme portata. Il ‘think tank’ britannico ‘Chatham House’ ha rilevato nel suo ultimo rapporto che i primi settori a risentire in negativo di maggiori stanziamenti per produzione e vendita di armi sono sanità, istruzione e politiche del lavoro. Anche per questo, dunque è auspicabile che il numero degli Stati africani parte del trattato – oggi fermo a 7 su 54 – aumenti rapidamente.

 Davide Maggiore

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