Una festa della fede, della pace e della speranza, riscaldata dal sole di Roma dopo il plumbeo cielo della vigilia. Gioiosa come al tempo dell’esistenza terrena di Karol Wojtyla. Senza quel velo di tristezza che negli ultimi anni attanagliava chi si trovava a passare in piazza San Pietro. Stavolta però la sua immagine non era più sulla loggia centrale della basilica ma sopra, nell’arazzo che compete a chi sta ormai al cospetto di Dio. Quel cielo azzurro è apparso quasi un miracolo, una sfida alle angosce che ogni giorno attanagliano il cuore. Una carezza di Dio di fronte alle tragedie del mondo: ad una pace che si nutre di bombardamenti che non distinguono tra vittime e carnefici, o al groviglio perverso di catastrofi naturali o per mano dell’uomo che in una sequela ininterrotta provocano sofferenza e morte.
Giovanni Paolo II beato. Un’isola di pace testimoniata da oltre un milione di uomini e donne cristiani, un messaggio rivolto ai fedeli ma offerto anche a tutti gli uomini di buona volontà, il testamento più autentico del nuovo beato. Dove il sorriso rassicurante della sua immagine, lo sguardo che proiettato lontano, è apparso per contagio sui volti dell’immensa folla, ha sconfitto l’angoscia, ha rievocato in un istante quel grido a non aver paura, a confidare sull’aiuto e sulla misericordia di Dio. Si può ora affermare che proprio mentre Giovanni Paolo II saliva sull’altare, discendeva di nuovo nel mondo, per la perseveranza e la determinazione del suo successore e amico, Benedetto XVI. Ne hanno avuto certezza i fedeli presenti – e tutti gli altri che con il cuore hanno seguito la cerimonia – i quali hanno affrontato da paesi lontani grandi disagi per dire “io c’ero!”. Tutti convocati oltre che dall’affetto per il Pontefice scomparso dal bisogno di rivivere l’essenza del suo magistero, di ricongiungersi a lui almeno con il cuore.
Uomini e donne che l’avevano incontrato sulle vie del mondo, o che avevano incrociato il suo sguardo, o che si erano semplicemente innamorati delle sue parole, dei suoi gesti, della sua grande umanità. È stato spesso ripetuto che la Chiesa non crea dei santi, ma ne svela la virtù che è già esistente. Ebbene, Karol Wojtyla vivente, comunicava agli altri la sua santità, la spargeva a piene mani intorno a lui. E i suoi interlocutori ne venivano travolti. Sapeva, oltre la politica, la tv, Facebook, le mode del momento, oltre l’annacquamento o la perdita dei valori, tornare all’essenza dell’annuncio. E far riaffiorare il soffio divino che è in ogni essere umano, trasmetterlo proprio a mondo di oggi, rievangelizzando, come ha ripetuto Benedetto XVI, la cultura, la società, ognuno di noi. Un “gigante della fede”. Quella sua visione della vita e del destino dell’umanità, quell’affidarsi, quell’aprirsi a Cristo per non aver più paura nel nostro cammino quotidiano, era stampato nei volti dell’immensa folla, ed è promessa che non svanirà facilmente. La beatificazione (e forse presto la canonizzazione) fa tornare nella storia, non archivia il magistero di Giovanni Paolo II.
Ne è promessa fedele il suo successore, Benedetto XVI: dopo mille anni un Pontefice che eleva sugli altari colui che l’ha preceduto sul trono di Pietro e che, non a caso, ha voluto presiedere la cerimonia indossando i paramenti che erano stati di papa Wojtyla. Ha commosso la commozione di Benedetto XVI, come la conferma, ripetuta e sottolineata, dell’amicizia che ha legato la sua vita a Giovanni Paolo II. Il carico che pesa sulle sue spalle non è certo scemato, semmai accresciuto. I pericoli che minacciano l’umanità e la stessa Chiesa non sono affatto diminuiti, forse più insidiosi. Nel deserto provocato dal peccato, e contro il pessimismo, che giudica il male inevitabile, si era levata la voce del Papa che non aveva paura, perché egli personalmente, con l’intensità della propria fede, l’aveva vinta. Contro gli stessi mostri il popolo di Dio sa di poter contare su chi, dopo di lui, ne ha raccolto l’eredità.
Silvano Spaccatrossi
SIR