Pubblichiamo il saluto di apertura alla Conferenza internazionale sul giornalismo di pace svoltasi il 13 ottobre in Vaticano su iniziativa dei Dicasteri per la comunicazione e per il servizio dello sviluppo umano integrale.
Che uso facciamo delle parole nel racconto di quel che siamo, di quel che facciamo, di come viviamo? Nella costruzione cioè della nostra storia, che inseguendo un uso sbagliato delle parole ci scappa di mano, diventa sguaiata e violenta, e si scrive da sola mentre noi la inseguiamo.
In una sua bellissima filastrocca per bambini Gianni Rodari scriveva:
Abbiamo parole per tutto, cerchiamo insieme le parole per parlarci.
Abbiamo parole per vendere,
Parole per comprare,
Parole per fare parole.
Abbiamo parole per fingere,
Parole per ferire,
Andiamo a cercare insieme
Le parole per pensare.
Andiamo a cercare insieme,
Le parole per amare.
Le parole sono alla base della nostra comunicazione. Per questo è bene che siano quelle giuste.
E quelle giuste sono le parole che aiutano a capire.
Una seconda riflessione riguarda il rapporto fra pace e sicurezza. E qui prendo in prestito le parole di Dietrich Bonhoeffer per provare a capovolgere un sillogismo troppo facile, secondo il quale la pace dipende dalla sicurezza.
Davvero è così?
Non proprio. Non sempre almeno.
La pace si coniuga con la giustizia meglio che con la sicurezza, che non sempre è giusta.
E certo non lo è quando riduce l’altro (a prescindere) in un nemico da cui difendersi.
Cito dunque Bonhoeffer:
“Come si crea la pace? Con un sistema di trattati politici?… Mediante il denaro? O addirittura mediante un riarmo pacifico generale con lo scopo di assicurare la pace? No, attraverso nessuna di queste cose. E questo per un unico motivo: perché qui si confondono sempre pace e sicurezza. Ma la pace va osata, mai e poi mai può essere assicurata. La pace è il contrario di sicurezza, esigere sicurezza significa essere diffidenti, e a sua volta la diffidenza genera la guerra”.
Ecco un altro elemento di riflessione a proposito del modo in cui intendiamo la comunicazione. Riguarda l’obbligo, per ogni buon giornalista, di non vedere le cose da un solo unico punto di vista. L’obbligo di porsi dubbi. In questo caso di distinguere tra la sicurezza giusta e quella ingiusta.
Una terza riflessione riguarda il difficile compito della discernita di cosa raccontare.
E qui prendo in prestito le parole di Italo Calvino, per dire che anche con questa attività si può alimentare l’inferno o costruire la pace.
La citazione è tratta da “Le città invisibili”: “L’inferno dei viventi è quello che abitiamo tutti i giorni. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli lo spazio”.
Ecco, in questo dargli spazio c’è lo spazio del giornalismo di pace.
Una quarta ed ultima riflessione che voglio condividere riguarda il rapporto che questo nostro incontro ha anche con il tema del prossimo messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali.
Questo convegno rappresenta anche, in qualche modo, un passaggio di testimone fra la riflessione che Papa Francesco ci ha invitati a fare l’anno scorso e quella che ci propone per l’anno venturo, ammonendoci a non ridurre il concetto di comunità ad un suo surrogato superficiale.
Non c’è community se non c’è comunità.
Nel tempo della interconnessione, dei social, del passaggio dalla società della comunicazione alla società della conversazione, dobbiamo stare attenti a non trasformare la rete in quel che essa per sua natura non è (non necessariamente almeno): un luogo dove più ci si addentra più si perde la propria unicità, la propria identità personale. E anche l’orientamento. La capacità di distinguere fra vero e falso. Coerente e incoerente. Rimanendo intrappolati in un gioco che finisce per annullare ogni relazione vera, ogni dialogo sincero, ogni capacità di comprensione.
Dobbiamo restituire alla rete il suo significato più bello, e più legato alla natura dell’uomo: la bellezza dell’incontro, del dialogo, della conoscenza, della relazione.
La dimensione digitale è reale anche se è incorporea, non è virtuale. Per questo occorre ripartire dalla realtà delle persone, tutte intere, e dalla verità di relazioni vere: per riscoprire la bellezza della pace, riannodare il primo filo. Ripartire dalla prima regola. Non fare agli altri quello che non vorresti sia fatto a te. Fai agli altri quello che vorresti sia fatto a te.
Ha ragione Paolo VI: alcuni pensano sia un sogno, un mito, una utopia. Noi invece diciamo che la pace è una cosa difficile, difficilissima anzi; ma è una cosa possibile, una cosa doverosa.
E ha ragione Oscar Romero: Questa è la grande malattia del mondo di oggi: non saper amare. Mi sembra di vederlo Cristo, intristito, mentre dice: vi avevo detto di amarvi come io vi amo. (23.3.78)
Paolo VI ed Oscar Romero sono Santi, e c’è un filo di continuità che lega noi qui al Papa che ha chiesto a noi, agli operatori dell’informazione, della comunicazione, di fare ogni sforzo per annunciare dai tetti il messaggio di Cristo (la via, la verità, la vita) ad un mondo che la luce la cerca ormai quasi a tastoni.
E ad un vescovo martire proprio perché questo faceva senza arrendersi alla falsità del tempo.
Riallacciare questo filo è un modo per contribuire alla costruzione di un giornalismo di pace.
Paolo Ruffini
( prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede)