Pandemia e dintorni / La paura del contagio frena l’affluenza nelle chiese. La psicologa Lenza: “I sacerdoti vadano incontro ai fedeli”

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Foto Sir/ Marco Calvarese

Contro la paura serve pensare a nuovo modello di parrocchia, aiutare gli altri e rispettare i propri tempi. E se si è in difficoltà, parlarne.
Diana Lenza è psicologa e psicoterapeuta. In questo periodo ha lavorato con le Misericordie fornendo supporto ai volontari impegnati in prima linea e a quelli in quarantena. Con lei abbiamo parlato della paura del contagio che anche in questa fase resta diffusa: accanto alla ripresa della movida, nelle chiese l’affluenza dei fedeli fatica a riprendere.

Foto Sir/ Marco Calvarese

Dottoressa, la paura è un sentimento ancora diffuso, specialmente tra gli anziani. Lo testimonia ad esempio la scarsa affluenza nelle chiese. Come mai?
In questi mesi abbiamo assistito a un martellamento dei mass media sulla necessità di stare in casa, diretto soprattutto agli anziani, che erano la maggioranza tra le vittime del virus. Sono loro che hanno vissuto di più la paura. Anche adesso i messaggi dei media non sono confortanti: così una persona anziana si mantiene a distanza. Non ci sono tante rassicurazioni sul fatto che andare in chiesa non sia rischioso. Le chiese sono vuote perché frequentate prevalentemente da persone anziane. Gli anziani hanno più difficoltà a cambiare, sono legati alle loro abitudini, hanno un ritmo più lento, mentre i giovani sono abituati a correre e sono stati i primi a uscire. È stato un momento in cui tutto è cambiato e gli anziani saranno gli ultimi a trovare un adattamento. Tutti, e non solo gli anziani, hanno avuto reazioni traumatiche di fronte alle scene drammatiche trasmesse in tv: queste reazioni infatti possono essere causate anche dall’aver visto delle immagini o aver sentito dei racconti. Specialmente per una persona anziana questo rimane come un trauma e ha delle ripercussioni. Inoltre, gli anziani hanno sofferto molto la solitudine, non potendo vedere figli e nipoti: un disagio psichico a cui si è aggiunta la paura di morire da soli. Credo che le chiese vuote esprimano la paura, la distanza, la diffidenza delle persone.

Come aiutare queste persone?
La mia idea è che si dovrebbe passare da un modello di parrocchia “autocentrato” a uno “eterocentrato”: una chiesa che abbia al suo interno un livello più legato alla relazione interpersonale, che avvicini fedeli e istituzione, come avviene ad esempio con la benedizione delle case. Immaginerei dei momenti in cui siano i parroci a muoversi verso i fedeli, andando a visitarli nelle loro case, celebrando Messe all’aperto, creando una vicinanza nuova e diversa. In questo periodo ci sono stati parroci molto presenti nella vita dei loro parrocchiani, molte parrocchie si sono attivate aiutando le persone in difficoltà. Si deve continuare in questa direzione, dando tempo al tempo: sono sicura che torneremo alla Messa. Siamo in un momento di transizione che deve essere curato dai sacerdoti, che devono andare incontro ai parrocchiani, per invitarli e rassicurarli che andare in chiesa non è pericoloso.

La paura del contagio però è rimasta diffusa anche nel resto della società. Come questo influisce sulla ripresa?
La paura riguarda tutti, non solo gli anziani ma anche i più giovani. C’è paura di ripartire perché siamo in una fase di cambiamento e i cambiamenti portano disagio. È stata un’emergenza sanitaria ma anche psicologica e chi aveva dei problemi prima ora se li ritrova amplificati. Le nostre abitudini sono dovute cambiare, a cominciare dal contatto con le persone: siamo un popolo mediterraneo, siamo abituarci a abbracciarci, a toccarci. Adesso c’è l’imbarazzo dell’incontro: istintivamente ci si tende per abbracciare l’altro ma poi siamo costretti a fermarci. Ci sono alcune persone più disponibili al cambiamento che si adattano benissimo, e altre che hanno molta difficoltà e paura.

Cosa si può fare per superare questa paura?
Da quello che ho osservato lavorando con i volontari della Misericordia in quarantena e con chi andava in zona rossa, ho notato che, nonostante il rischio vissuto, quasi tutti i volontari hanno partecipato con entusiasmo: essere utili e attivi mentre tutto era fermo li ha aiutati a vincere la paura, ad avere un contatto con la realtà diverso da chi stava a casa e ha funzionato come fattore di protezione da un punto di vista psicologico. Fare buone azioni fa star bene e può aiutare anche in questa fase: fare del bene aiuta sempre, e credo che dare qualcosa di sé sia una protezione dalla salute psichica. Inoltre, per superare la paura è importante ascoltarsi: ognuno di noi ha un suo tempo per ripartire, un equilibrio. Se qualcuno nota che ha difficoltà nel ripartire il mio consiglio è di farsi aiutare, parlarne, esprimere le proprie difficoltà con una persona esperta, o anche con un amico, o con il parroco. Il periodo è delicato e dobbiamo agire con delicatezza tutti: anziani, bambini e adulti.

Serena Rubini
(originariamente pubblicato su Toscana Oggi)

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