È dedicata
al velo, controverso capo d’abbigliamento femminile, la mostra fotografica che
il Museo diocesano di Catania propone in questi giorni, sotto l’annuale festa
di sant’Agata. Non per niente è Re-velation il titolo della suggestiva serie di
scatti esposti da Carla Iacono nelle sale dell’antico Seminario dei Chierici.
Le nostre nonne lo indossavano spesso nelle giornate ventose. E sempre per
andare a messa. Ora, nella parte di mondo in cui viviamo, è diventato desueto e
persino le suore, se vogliono, possono lasciarlo nel cassetto o, almeno,
metterlo senza più la cuffia bianca che si sostituiva alle loro guance. Si dice
che fosse simbolo di dipendenza e, al limite, di sottomissione. Eppure Fellini,
in alcune sequenze memorabili de “La dolce vita”, lo lasciò in testa alle sue
dive, amazzoni dell’emancipazione che si permettevano di dare un passaggio in
vespa a Marcello Mastroianni.
In ogni caso, certamente in chiesa e nei conventi il velo segnalava la dedizione nei confronti di quello stesso Dio di cui una ragazza ebrea, duemila anni fa, era stata al contempo madre e figlia, se così posso parafrasare Dante.
E proprio
guardando la Madonna – figura centrale nell’immaginario collettivo occidentale,
tanto da assumere come suo nome proprio quello comune che indicava nel medioevo
le signore più belle e le padrone di casa – possiamo renderci conto di quanto
diversa sia la nostra visione rispetto a quella di chi ci ha preceduto. Senza
andare molto lontano, se non altro in senso geografico, pensiamo ad Antonello
da Messina, anche lui attualmente in mostra a Palermo, che vedeva nell’“ancilla
Domini” – la straordinaria “Annunciata” custodita nella Galleria Regionale di
Palazzo Abatellis – una donna timorata e tuttavia non timorosa, capace di
stoppare, o di congedare ormai, con un gesto sovrano il messaggero divino,
mentre persino il Cielo si china ad avvolgerla, calzandole a pennello – è il caso
di dirlo – in foggia di chador azzurro.
L’autrice di Re-velation rivisita – appunto – alcuni capolavori d’arte come le
Madonne del Sassoferrato e come la “Ragazza con l’orecchino di perla” di
Vermeer, tutte “velate” insigni della pittura secentesca, che posano di nuovo
ora come giovani arabe avvolte in splendidi hijab dai colori vivaci e in
sontuosi chador neri, ora come ragazze europee adornate da foulard variopinti o
schermate dai candidi veli d’organza che le spose usano nel giorno delle nozze.
L’effetto è analogo a quello dei dipinti di riferimento, anche perché le fotografie valorizzano la medesima posa di tre quarti preferita dalla migliore ritrattistica moderna: perciò le donne di Carla Iacono – il cui volto è sempre quello di sua figlia Flora – sembrano interloquire con chi le ammira, come se si sentissero chiamare dall’esterno e, soprattutto, come se volessero a loro volta interpellare lo spettatore, spingendolo a interrogarsi innanzitutto su se stesso, sulla propria identità culturale e religiosa, sulla propria disponibilità oppure sulla propria chiusura verso chi appare diverso solo perché arriva da lontano, coi suoi vestiti esotici, con lo sguardo spaesato e con un intimo bagaglio zeppo di sofferenze indicibili e di ineffabili speranze.
Difatti, i
veli di Re-velation, con la loro densità simbolica e fascinosa bellezza, non
prevaricano mai il volto femminile che incorniciano. Lo fanno anzi risaltare,
lo impongono all’attenzione, ne sottolineano la mimica, ne enfatizzano i
tratti, il filo delle labbra, le linee degli occhi e, più di tutto, la loro
cangiante luce. È un esito sorprendente, che smantella, quadro dopo quadro, il
nostro pregiudizio sul velo: esso non nasconde, bensì espone. Più sembra
fasciare il viso e restringerne l’ovale, più invece lo mette in primo piano e
lo manifesta.
Per apprezzare questo paradosso occorre smarcarsi dall’equivoco – che risale
alle convinzioni di Hegel – secondo cui la rivelazione, niente poco di meno
quella di Dio, corrisponde alla rimozione d’ogni velo. È vero, piuttosto, che
il velo del tempio viene squarciato – come si legge nei racconti evangelici
della morte di Gesù – e quindi raddoppia: i veli diventano due, anche se tra di
essi si apre lo spiraglio che permette al mistero di lasciarsi finalmente
decifrare da chi è lesto a guardarvi dentro. Così è con la carne umana di cui
si riveste il Verbo divino, tanto che il Cristo significa sapienza per chi lo
guarda con gli occhi della fede e follia o scandalo per tutti gli altri. In lui
la rivelazione si compie coerentemente all’etimo della parola: come
“re-velatio”.
Il prezioso trattino, presente anche nel titolo della mostra di Carla Iacono,
aiuta a capire che pure il velo femminile, inteso in quest’ottica, torna utile
a far brillare la vetrina dell’identità – personale, religiosa, culturale –,
che è il volto, vero protagonista e ultimo diaframma da penetrare per poter
riscoprire in esso e nella sua indole relazionale (perciò nelle sue valenze
interpersonali, interculturali e interreligiose) l’umanità di tutti, la nostra
e l’altrui.
Massimo Naro