Abbiamo ricordato in questi giorni l’anniversario della morte di Dante (il 25 marzo: il settecentesimo anniversario sarà celebrato il prossimo anno), un uomo che ha fatto l’Italia oltre cinque secoli prima. La sua nostalgia dell’impero non dimenticava la specificità della penisola che ne faceva una delle roccaforti delle lingue discendenti dal latino, il “bel paese dove ‘l sì suona” del XXXIII del suo Inferno, dove Roma attendeva di tornare allo splendore antico, non solo quello politico: il “ghibellin fuggiasco” di Foscolo in realtà era un guelfo progressista, sostenitore di una moderna separazione tra il potere politico e quello religioso. Foto Ansa / Sir
Nostalgia sì, quindi, ma lucidamente cosciente dei cambiamenti intercorsi negli anni recenti e che avevano portato ad una lenta evoluzione dal comune verso la signoria, a causa anche della continua litigiosità delle fazioni comunali, che, Dante lo aveva capito anche nella sua esperienza personale, avrebbe portato alla fine delle libertà cittadine. Ma non è solo politica. Al di là delle sue convinzioni linguistiche esposte soprattutto nel De vulgari eloquentia, sarà proprio a lui a creare una lingua unitaria, che, a partire dal fiorentino, saprà sostanziarsi di altri contributi linguistici e divenire essa stessa l’italiano che ancora oggi parliamo anche se nelle sfumature dialettali di cui il Fiorentino era ben consapevole.
La sua Commedia, questo era il titolo originario, è divenuta un monolite che secoli di filologia, riforme religiose, storiografia, attacchi e difese non sono riusciti ad intaccare. Perché è in realtà un miracolo essa stessa in cui cultura e poesia, fede e libero pensiero (quello che attaccava il potere politico della Chiesa ed alcuni papi) si fondono in una creazione senza precedenti. Senza dimenticare la sua concezione dell’amore che ha affascinato generazioni e generazioni di lettori, poeti, filosofi, uomini e donne e che veniva da molto lontano, dalla Provenza e prima ancora da alcuni passi biblici e forse non solo quelli. Una concezione che probabilmente ha causato qualche equivoco ma che rimane testimonianza di un vissuto di cui egli sentiva abissalmente le contraddizioni tra principi religiosi e passioni individuali.
La sua partecipazione al dramma di amore e morte di Paolo e Francesca, che causa addirittura il suo venir meno alla fine del canto quinto, non impedisce la condanna dell’inferno non solo per il peccato di infedeltà, ma soprattutto per aver innalzato la persona amata al di sopra delle leggi sacre e profane, come qualche anno dopo teorizzerà nel Secretum Francesco Petrarca, grazie al magistero dantesco.
Il suo è davvero l’esempio inimitabile di come la fede si sia incontrata con la dimensione prettamente umana in una nuova esperienza che ha innalzato un monumento incancellabile alla bellezza – e alle contraddizioni del qui e dell’ora – di questo incontro.
Marco Testi