La prima regola per un giornalista è il rispetto della verità sostanziale dei fatti. Ma cosa succede quando è un non-giornalista a raccontare eventi di cronaca o parti di realtà? In teoria vale lo stesso principio, soprattutto se si utilizza un canale o un programma di informazione e se l’eventuale rappresentazione di fatti o vicende verosimili – ma non reali – non è dichiarata.
Il dibattito sul rapporto tra verità e spettacolo è aperto da tempo e ogni tanto riacquista attualità, come è successo nei giorni scorsi a fronte di due episodi specifici: la cacciata di Fabio e Mingo dalla redazione di “Striscia la notizia” (Canale 5) e il licenziamento di Fulvio Benelli dalla redazione di Videonews, che produce “Quinta colonna” e “Dalla vostra parte” (Rete 4).
Il duo pugliese che da anni invia servizi alla redazione del tg satirico più famoso d’Italia è stato sospeso perché accusato di aver confezionato falsi servizi pseudo-giornalistici. In particolare, la procura di Bari avrebbe aperto un indagine su Fabio e Mingo per simulazione di reato, dopo che i due avevano realizzato un video in cui denunciavano l’esercizio abusivo della professione da parte di un finto avvocato.
Il giornalista di Mediaset è stato invece licenziato per un motivo analogo – la realizzazione di servizi falsi – con un’aggravante: avrebbe pure pagato una persona per interpretare due diversi personaggi (un “rom truffatore di italiani” e un “estremista musulmano”), funzionali alle storie che aveva deciso di raccontare. Benelli ha perso il posto dopo che Moreno Morello, altro storico inviato di “Striscia”, ha intervistato l’attore improvvisato, il quale ha raccontato tutto. A quel punto Claudio Brachino e Mario Giordano, direttori rispettivamente di Videonews e Tg4, non hanno potuto fare altro che lasciarlo a casa, dichiarandosi ingannati loro per primi e riservandosi – come Antonio Ricci nei confronti di Fabio e Mingo – la facoltà di valutare eventuali iniziative legali.
L’idea che un tg satirico provochi il licenziamento di operatori televisivi smascherandone le notizie “false” ha quasi il sapore del paradosso. E nella televisione in cui gli spazi per l’informazione in senso stretto sono sempre più vampirizzati da quelli dell’infotainment (informazione-intrattenimento) o dell’infoshow (informazione-spettacolo) vien da chiedersi se abbia ancora senso pretendere credibilità da trasmissioni che non sono propriamente testate giornalistiche.
La commistione dei registri dell’informazione e della fiction caratteristica della televisione contemporanea fa sì che i giornalisti si sentano autorizzati a fare ricorso alla finzione per ricostruire i casi di cronaca reali e gli attori (questo sono i citati Fabio e Mingo) si sentano autorizzati a realizzare veri o presunti scoop anche se non sono giornalisti. Il fatto che numerose trasmissioni dichiaratamente di “approfondimento giornalistico” si costruiscano più sulle ipotesi che sui fatti e affidino a figuranti l’interpretazione dei soggetti della cronaca non aiuta certo lo spettatore a fare chiarezza.
La storia dell’informazione è piena di falsi storici, sia nella documentazione fotografica che nel racconto più o meno “interpretativo” (e quindi fantasioso) dei fatti. È pur vero che la notizia non esiste in sé e che per far diventare notizia un evento serve inevitabilmente la mediazione del giornalista e della macchina informativa. Se poi si esce dall’ambito strettamente giornalistico, il pericolo della deriva verso il falso è ancora più concreto.
Quello che in Italia si chiama “informazione” in ambito anglosassone si definisce “newsmaking”, termine meno poetico ma più concreto, che rimanda al “fare le notizie”. Come molti altri mestieri, anche quello del giornalista si gioca sulla sua onestà intellettuale molto più che sulle sue competenze retoriche.
Marco Deriu