Disabilità / Giovanni Cupidi: “Non è la persona che deve essere integrata nella società ma viceversa”

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Quanto e in che termini è consentito parlare di disabilità? Durante l’incontro tra associazioni ed esponenti del Governo, svoltosi lo scorso 3 dicembre a Palazzo Chigi in occasione della Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità, il premier Renzi è intervenuto con poca incisività, glissando su mozioni e progetti che dovrebbero rispondere alle reali necessità quotidiane dei circa 4 milioni di italiani affetti da disabilità.  Eppure, a tutt’oggi, la Commissione Bilancio discute del reintegro, da 250 a 275 milioni stanziati nel 2013, dei tagli annunciati nella proposta di Legge di Stabilità 2015, nonostante il finanziamento del Fondo Nazionale per le Politiche sociali rimanga inferiore a quello del 2013: circa 300 milioni di euro per sopperire ad ogni tipo di esigenza/emergenza sociale. In realtà, “l’Italia ha una delle migliori legislazioni in favore delle persone con disabilità”, come ci spiega Giovanni Cupidi, affetto da grave tetraplagia esito da lesione spinale cervicale, dottore in Scienze Statistiche ed economiche, e creatore del blog “giovannicupidi.wordpress.com”, in cui si occupa di disabilità.

Cosa significa essere disabile nel nostro Paese?

“La condizione di disabilità oggi significa affrontare due condizioni di svantaggio o di debolezza: uno dato dalla menomazione di cui è affetta la persona e l’altra data dalla inadeguatezza della nostra società al soddisfacimento delle necessità della persona con disabilità e al rispetto delle leggi e dei diritti universalmente riconosciuti alla persona stessa. Tutto ciò causa soprattutto l’emarginazione sociale e l’invisibilità della persona”.

Quali sono gli interventi legislativi volti a favorire l’autonomia delle persone con disabilità?

“Le leggi più determinanti sono la 104/92, la 328/2000, la 17/99, la 68/99 e su tutte la ratifica della convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità. Di queste quelle applicate male o non applicate nei fatti sono la 68/99 e la convenzione Onu. Da anni si sta lottando per il riconoscimento pieno su tutto il territorio nazionale della figura del caregiver, ossia di quelle persone, soprattutto familiari della persona interessata, che nei fatti se ne occupano e ne garantiscono la vita anche sociale. Riconoscimento anche di tipo economico”.

Oltre ai bisogni primari, quali sono le esigenze dimenticate? Chi dovrebbe occuparsene?

“Sicuramente le sfere affettive e della sessualità. La persona con disabilità viene come espropriata da queste naturali e fondamentali esigenze, come se la menomazione fosse estesa anche a questi ambiti. Su chi debba occuparsi di ciò da qualche tempo se ne è cominciato a discutere. Bisogna comprendere quando sia necessario un intervento legislativo che possa garantire ad una persona con grave disabilità l’espressione della sua sessualità, e di poter raggiungere tali necessità come ogni persona fa normalmente”.

La rete riesce a sopperire alla piaga dell’isolamento sociale?
“L’epoca moderna,di certo, favorisce la comunicazione e anche l’interazione quasi quotidiana tra persone anche fisicamente lontanissime. Ovviamente, tutto ciò migliora sensibilmente le relazioni e le interazioni virtuali a chi è affetto da disabilità. Però si corre il rischio che i social network, seppur con pregi notevolissimi, rischiano di contribuire all’isolamento in casa della persona. Non tutti hanno le capacità di “portare fuori” dalla rete nel mondo reale cosiddetto le relazioni ed interazioni sviluppate online”.

Secondo la Corte di Giustizia europea, solo il 16% delle persone disabili lavora regolarmente in Italia. Quali interventi si potrebbero attuare per garantire loro un normale inserimento nel mondo del lavoro?
I dati comunicati dall’Istat sono tragici,soprattutto in Sicilia. Si potrebbe e dovrebbe coinvolgere le università, le aziende e le organizzazioni aziendali per prevedere percorsi che ad esempio aiutino l’inserimento lavorativo degli studenti universitari con disabilità che rischiano, una volta terminato il percorso di studi, di restare fuori dal mercato del lavoro”.

Cos’è l’assistenza domiciliare indiretta? Quali sono i vantaggi per il disabile e quali per lo Stato?

“L’assistenza domiciliare indiretta consiste nell’assunzione da parte nostra di uno o più collaboratori che ci aiutano a compiere o compiono con noi o al nostro posto le azioni che la disabilità ci impedisce di svolgere in modo autosufficiente. Nel doppio ruolo di datori di lavoro e destinatari dell’attività lavorativa, stipuliamo un accordo privato con l’assistente e ci accordiamo su tempi, modalità e mansioni.  Essendo una nostra libera creazione, possiamo utilizzarlo, compatibilmente con il budget a disposizione, quando vogliamo e per soddisfare i nostri desideri, in modo da poter scegliere il contenuto del nostro quotidiano e partecipare alla vita sociale. Per l’ente pubblico il costo sostenuto nel finanziare un’ora di assistenza indiretta è senza dubbio inferiore a quello di un’ora di assistenza domiciliare, a parità di retribuzione. Ciò è dovuto al fatto che sono minori i costi di amministrazione e di gestione. La scelta dell’assistenza indiretta comporta anche altri vantaggi per l’ente pubblico, determinati dal miglioramento della qualità della vita degli utenti. Inoltre, riduce il numero di persone con disabilità ricoverate periodicamente in strutture sanitarie o riabilitative. Infatti, alcuni ricoveri concepiti come momenti di sollievo per la persona o per la sua famiglia, non sarebbero più necessari”.

Che cosa non si è ancora riusciti a comunicare della disabilità?

Non si è realmente compresa la differenza tra la menomazione e la disabilità. La menomazione di cui è affetta una persona è espressa dalla sua più o meno grave invalidità. La disabilità, invece, è la risposta non adeguata alla compensazione o meglio al soddisfacimento delle esigenze della persona affetta da una qualsivoglia menomazione che la società non riesce a dare non riuscendo a fornire tutti gli strumenti necessari a tale scopo. Tanto meno efficace è questa risposta tanto più tanto grave sarà la disabilità della persona.  Quindi non è la persona che deve essere integrata nella società ma è quest’ultima che deve essere in grado di adeguarsi alle esigenze della persona”.

 Chiara Principato

 

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