Disastro ambientale / Maxirisarcimento ai pescatori del Delta del Niger

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La compagnia petrolifera anglo-olandese Shell ha accettato di destinare 83,5 milioni di dollari ai pescatori della comunità di Bodo, per risarcirli dei danni causati da due sversamenti di petrolio avvenuti a partire dal 2008. Il ruolo decisivo del vescovo di Port Harcourt, Camillus Etokudoh, nel promuovere il giudizio. Ora bisogna distribuire equamente e promuovere lo sviluppo. 

“La situazione adesso è tranquilla, le compagnie petrolifere hanno accettato di pagare i risarcimenti per gli sversamenti di petrolio nel Delta del Niger, nell’area dell’Ogoniland, ma ora la questione è che non si sa quando di fatto il denaro verrà versato, quindi neanche quando arriverà materialmente”. Monsignor Camillus Etokudoh, vescovo di Port Harcourt, è sollevato ma prudente mentre commenta la notizia che la compagnia petrolifera anglo-olandese Shell ha accettato di destinare 83,5 milioni di dollari ai pescatori della comunità di Bodo, per risarcirli dei danni causati da due sversamenti di petrolio avvenuti a partire dal 2008. Tre anni di battaglie legali in un Tribunale britannico hanno portato all’accordo su una delle cifre più alte mai registrate in casi simili, quando l’offerta originaria era stata di appena 6.000 dollari per l’intera comunità. Quando gli si chiede se spera che in questo modo si sia creato un precedente giuridico, mons. Etokudoh pronuncia solo una parola: “Sì”.

pescatoriDanni ambientali. Le perdite di petrolio, tuttavia, non hanno ancora smesso di colpire il Delta: una delle ultime è avvenuta a fine novembre nella località di Bonny Island, dove 3.800 barili si sono sversati in mare. Ai primi di dicembre la quantità di greggio recuperata era pari ad appena 1.200 barili; il resto era arrivato fino a terra, avvelenando l’ambiente circostante. Granchi e pesci morti galleggiavano sull’acqua ricoperta di petrolio – talmente abbondante da poter essere raccolto direttamente con un secchio – e gli arnesi dei pescatori erano stati resi completamente inutilizzabili: questo lo scenario descritto dai testimoni che hanno visitato la zona mentre ancora i lavori di ripulitura erano in corso. La Shell – che anche in questa circostanza era la compagnia concessionaria dell’area dove era avvenuto il danno – attribuiva l’accaduto a un tentato furto di petrolio non andato a buon fine, un “sabotaggio”. Lo stesso termine utilizzato dall’azienda per giustificare circa il 70% degli incidenti di questi anni, anche se in vari casi le spiegazioni emerse dopo indagini più approfondite sono state ben diverse. Ne è un esempio proprio il disastro di Bodo: alcuni documenti ottenuti dalla stampa britannica hanno dimostrato che per due anni la Shell ignorò gli allarmi che riguardavano le condizioni dell’oleodotto. Mons. Etokudoh, che avrebbe preso possesso della sede episcopale proprio a maggio 2009, ricorda le conseguenze dell’accaduto nell’area: “Le perdite – spiega – furono definite ‘un problema operativo’ delle condutture, ma hanno provocato un danno ambientale su ettari ed ettari di terra e anche nell’acqua, avvelenando i pesci e tutte le altre forme di vita”. Davanti a questo colpo terribile per l’economia di sussistenza della regione, il ricorso in Tribunale rappresentava una via obbligata per i cittadini.

Giustizia e sviluppo. Accettando di pagare gli oltre 83 milioni, la compagnia petrolifera ha evitato che sul caso fosse pronunciata una sentenza, ma la comunità ha comunque ottenuto il suo scopo. “A questo serve la giustizia!”, esulta il vescovo di Port Harcourt. “Quando i poveri soffrono – prosegue – possono rivolgersi al Tribunale, che è l’ultima speranza per le persone comuni, e ora quando succederanno episodi del genere, è quel che potranno fare tutte le comunità coinvolte, ottenendo giustizia”. Quella giustizia senza la quale, spiega ancora il presule, “non può esserci pace: e in mancanza di pace non può esserci progresso o sviluppo”. Molto resta ancora da fare nell’area, in effetti: per la completa riabilitazione dell’Ogoniland, ha stimato il programma Onu per l’ambiente (Unep), serviranno almeno 30 anni. In più, nella zona mancano spesso – dopo decenni dall’inizio delle sfruttamento dei giacimenti – servizi di base come le scuole e persino l’acqua corrente, in un Paese dove il salario minimo è pari a circa 100 dollari. Nel sostenere le popolazioni del luogo proprio la Chiesa può svolgere un ruolo importante: “Quando il denaro arriverà – chiarisce mons. Etokudoh – dovremo aiutare tutti ad accordarsi per una distribuzione equa e assicurarci che si possa così vivere in pace”. Sarà questo il prossimo compito della locale commissione Giustizia pace e sviluppo umano, di cui il presule ricorda il “lavoro prezioso”, compiuto già negli anni della lunga vicenda legale, “perché questa è la nostra parte, aiutare i più poveri facendo tutto il possibile”.

Davide Maggiore