Pubblichiamo integralmente la nota di don Giovanni Vecchio scritta per alcuni organi di informazione sulla recente visita di Papa Francesco in Brasile, più precisamente sulle riflessioni e gli impegni suscitati dagli incontri, i gesti, le omelie, i discorsi, i messaggi, i colloqui del Pontefice. Don Giovanni Vecchio, sacerdote di Acicatena, opera “fidei donum” da decenni, tranne due brevi pause, nella Diocesi brasiliana di Belo Horizonte. Don Giovanni è al centro della foto accanto, nell’anniversario del 40° di sacerdozio, con quindici sui ex alunni e confratelli.
Amici giornalisti mi chiedono di scrivere su cosa ha lasciato la visita del Papa in Brasile, guardando dal mio punto di vista di sacerdote italiano da parecchi anni in Brasile, a servizio della diocesi di Belo Horizonte, dove attualmente esercito il ministero di cappellano in due ospedali.
Posso dare un’idea in proposito a partire dal messaggio di posta elettronica che mi ha inviato la professoressa Monica, docente di antropologia sociale, una amica che conosco dal tempo in cui insegnavo alla Pontificia Universitá Cattolica di Belo Horizonte.
“Sono rimasta commossa dal Papa. Ho assistito a quasi tutte le cerimonie e discorsi di Francesco e non ho resistito ai ricordi e alle lacrime. Immagino che, come me, molte altre persone abbiano ricuperato la connessione col proprio passato, ritrovando la fede cattolica e magari si siano rifornite di coraggio e speranze. Io credo che proprio questo accadrá a me!!! Sono impressionata dalla semplicitá, prossimitá e familiaritá del nostro Papa. Ho riconosciuto in lui molto dei preti che passarono nella mia parrocchia e che segnarono la mia gioventú; e anche altri, dei diversi movimenti e gruppi della diocesi, anch’essi persone semplici, sorridenti ed eccellenti pastori. Sento “saudade” dei preti amici che ho conosciuto”.
C’è dunque un ricupero del proprio passato, che non è un semplice ritorno, ma un “rifornirsi di coraggio e speranze” in vista della testimonianza da vivere nel presente.
Alcuni giornalisti, prima dell’arrivo del Papa, avevano la pretesa di dettare l’agenda. Secondo loro l’attesa era rivolta alle iniziative che il Papa avrebbe dovuto lanciare per recuperare grande numero di fedeli. Il Papa “deve” autorizzare il divorzio, la pillola, il sacerdozio delle donne, il matrimonio omosessuale, affinché la Chiesa diventi moderna: cosí suggerivano.
Orbene, il ricupero avviene sì, ma in virtú dell’incontro vivo con un testimone autentico e non di strategie o di grandi idee, come diceva papa Benedetto XVI: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Deus Caritas est, nº 1).
Per coloro che ricordano l’esperienza di aver vissuto la prossimità di preti semplici al servizio della propria comunità, è come avere un tesoro conservato nell’armadio, per citare una espressione usata dal Papa nell’intervista al canale Globo-news. “Mancano sacerdoti, allora la gente cerca, ha bisogno del Vangelo. In una città dell’Argentina, dove non c’era un sacerdote da quasi venti anni, la gente andava ad ascoltare il pastore, perché sentiva il bisogno di ascoltare la parola di Dio. Quando giunse lì un sacerdote, una signora gli disse: “La Chiesa ci ha abbandonato. Ora vado ad ascoltare il pastore, è stato lui ad alimentare la nostra fede in tutto questo tempo”. Mancanza di vicinanza. Lei gli disse: “Padre, venga”. Lo portò fino a un armadio. Aprì e dentro c’era l’immagine della Vergine. Gli disse: “Padre, la tengo nascosta perché non la veda il pastore”. Quella donna andava dal pastore, perché non aveva il suo prete. Le radici di appartenenza le conservò nascoste in un armadio. Ma le aveva. È questo il fenomeno forse più serio. L’episodio mostra il dramma di questa fuga, di questo mutamento. Mancanza di prossimità”.
Senza dubbio tra le cose da fare in Brasile da parte di preti e vescovi c’è l’urgenza di correggere l’errore di una attività di Chiesa fatta di riunioni, documenti, commissioni etc.; quello che l’allora cardinale Ratzinger definiva una “Chiesa autooccupata”. “Ho sentito parlare della preoccupazione per l’allontanamento della gente – dice ancora il Papa Francesco nell’intervista citata, parlando con discrezione e delicatezza –. Non conosco la situazione del Brasile, non conosco le cause e le percentuali. Per me è fondamentale la vicinanza della Chiesa. La Chiesa è madre, e noi non conosciamo nessuna mamma “per corrispondenza”. La mamma dà affetto, tocca, bacia, ama. Quando la Chiesa, occupata in mille cose, trascura la vicinanza, se ne dimentica e comunica solo con documenti, è come una mamma che comunica con suo figlio per corrispondenza. Non so se questo è accaduto in Brasile, ma so che in alcuni luoghi dell’Argentina è accaduto proprio questo: la mancanza di vicinanza, di sacerdoti”.
È proprio alla luce di questa idea di “prossimità” che si comprendono quei gesti del Papa che hanno colpito la gente lasciando il segno, specialmente la visita al santuario nazionale di Nossa Senhora Aparecida, la visita all’ospedale S. Francesco per il recupero di vittime della droga e la visita alla comunità di Varginha.
La devozione a Maria è particolarmente sentita dal popolo; sarà efficace nel rinvigorire l’impegno delle comunità quanto detto dal Papa nell’omelia al santuario mariano: “La Chiesa, quando cerca Cristo, bussa sempre alla casa della Madre e chiede: “Mostraci Gesù”. É da Lei che si impara il vero discepolato. Oggi anche io vengo a bussare alla porta della casa di Maria – che ha amato ed educato Gesù – affinché aiuti tutti noi, i Pastori del Popolo di Dio, i genitori e gli educatori, a trasmettere ai nostri giovani i valori che li rendano artefici di una Nazione e di un mondo più giusti, solidali e fraterni. Siamo venuti a bussare alla porta della casa di Maria. Lei ci ha aperto, ci ha fatto entrare e ci mostra suo Figlio. Ora Lei ci chiede: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela»”.
Nell’ospedale S. Francesco il Papa ha indicato il metodo con cui dovranno confrontarsi quanti lavorano per aiutare i giovani coinvolti nel vizio della droga: abbraccio, educazione, giustizia, solidarietà.
“Abbracciare, abbracciare. Abbiamo tutti bisogno di imparare ad abbracciare chi è nel bisogno, come ha fatto san Francesco. La piaga del narcotraffico, che favorisce la violenza e semina dolore e morte, richiede un atto di coraggio di tutta la società. Non è con la liberalizzazione dell’uso delle droghe, che si potrà ridurre la diffusione e l’influenza della dipendenza chimica. È necessario affrontare i problemi che sono alla base del loro uso, promuovendo una maggiore giustizia, educando i giovani ai valori che costruiscono la vita comune, accompagnando chi è in difficoltà e donando speranza nel futuro. Ma abbracciare non è sufficiente. Tendiamo la mano a chi è in difficoltà e diciamogli: Puoi rialzarti, puoi risalire, è faticoso, ma è possibile se tu lo vuoi. Sei protagonista della salita! Troverai la mano tesa di chi ti vuole aiutare, ma nessuno può fare la salita al tuo posto. Ma non siete mai soli! La Chiesa e tante persone vi sono vicine”.
La categoria di solidarietà è apparsa chiaramente come parola-chiave anche nella prospettiva dell’azione politica, oltre che nell’azione pastorale di ogni comunità ecclesiale. “Solidarietà, una parola spesso dimenticata o taciuta, perché scomoda. Quasi sembra una parolaccia… solidarietà”.
A partire dall’esperienza di solidarietá vissuta nella favela si puó contribuire all’edificazione di una società più giusta.
“Qui in mezzo a voi, mi sento accolto. Ed è importante saper accogliere. Lo dico perché quando siamo generosi nell’accogliere e condividiamo qualcosa – un po’ di cibo, un posto nella nostra casa, il nostro tempo – non solo non rimaniamo più poveri, ma ci arricchiamo. Il popolo brasiliano, in particolare le persone più semplici, può offrire al mondo una preziosa lezione di solidarietà. Vorrei fare appello a chi possiede più risorse, alle autorità pubbliche e a tutti gli uomini di buona volontà impegnati per la giustizia sociale: non stancatevi di lavorare per un mondo più giusto e più solidale! Ognuno, secondo le proprie possibilità e responsabilità, sappia offrire il suo contributo. Non è la cultura dell’egoismo, dell’individualismo, che spesso regola la nostra società, quella che costruisce un mondo più abitabile; ma la cultura della solidarietà; la cultura della solidarietà è vedere nell’altro non un concorrente o un numero, ma un fratello!”
Qui è d’obbligo sottolineare che finalmente pare essere valorizzato quello che Padre Pigi Bernareggi fa e dice da quasi cinquant’anni; il papa lo esprime in forma ampliata e lo indica a livello generale. Padre Pigi, uno dei primi figli spirituali di Don Luigi Giussani, venne in Brasile nel 1964; è parroco nella parrocchia di Tutti i Santi in un quartiere della periferia di Belo Horizonte. Il suo lavoro sacerdotale è sempre stato la costruzione e animazione di comunitá cristiane in quell’ambiente.
Così scriveva in un libriccino dal titolo “Valori e cultura del mondo delle favelas”, pubblicato nel 1983: “Nella favela le persone si amano di più, vivono più fraternamente, esplode una gioia popolare, e più innocente e pura, le persone si sentono più “insieme” nella carne e nelle ossa; le persone hanno più pietà, sono più silenziosamente intense, più rumorosamente solidali, più protette a vicenda, meno disprezzate e sole, le persone si ricordano di tutte le cose, danno più valore a qualunque pur minimo bene, le persone sanno meravigliarsi con più facilità, gioire con più entusiasmo, le persone si perdonano con più generosità, ci si accoglie gli uni gli altri con più semplicità, le persone sono più ospitali, meno esigenti, più essenziali e semplici, amiche di ciò che è bello, buono e vero, le persone sono più aperte. Riassumendo: le persone sono maggiormente persone. Questo é il fatto, comprovato da innumerevoli analisi antropologiche, psicologiche, o semplicemente dal buon senso… Vogliamo che tutta la carica di umanità presente nel mondo delle favelas non sia corrotta, svuotata, dimenticata. Vogliamo che nella favela le persone possano vivere esplicitamente, pienamente, fino in fondo, la loro esperienza cristiana: e che tutta la Chiesa possa sentire l’immenso beneficio della presenza nel suo intimo del mondo delle favelas, con i suoi valori, la sua intensità e semplicità di vita cristiana. Vogliamo che dentro la favela la comunità cristiana sia per tutti il punto di riferimento della speranza, della fede e della lotta per giorni realmente migliori”.
Concludendo, l’incontro con i giovani, scopo della sua presenza in Brasile, non ha visto il Papa a rimorchio delle clamorose manifestazioni di strada che avvennero un mese prima, durante la Coppa delle Confederazioni di calcio, ma ha mostrato un cammino possibile per tutti, giovani e no. I miei attuali “parrocchiani”, cioé gli infermi ricoverati in ospedale, quanti hanno potuto assistere dal letto ai momenti della visita del papa trasmessi per televisione, hanno unanimemente commentato più o meno cosí: “Speriamo che la semente che il papa Francesco ha piantato possa produrre frutto”.
don Giovanni Vecchio