Padre Ugo Sartorio, francescano, teologo e giornalista: “Il sacerdote deve gettare il seme del Vangelo lontano, a tutti, con abbondanza e soprattutto con fiducia”. Anche nella consapevolezza che spesso si tratta di un “secondo (primo) annuncio” a ex-cristiani, post-cristiani, cristiani della soglia. E ancora: “Curare la presa di contatto con il pubblico che si trova davanti, da verificare mentre parla”.
“L’omelia non può essere uno spettacolo di intrattenimento, non risponde alla logica delle risorse mediatiche, ma deve dare fervore e significato alla celebrazione”. Papa Francesco dedica una parte considerevole della “Evangelii Gaudium” all’arte del predicare (nn. 135-159; la citazione è tratta dal n.138). A sugello delle parole del Pontefice la Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti ha di recente pubblicato un Direttorio. L’omelia, dunque, è un tema di grande attualità: ne parliamo con padre Ugo Sartorio, francescano, teologo e giornalista, a lungo direttore della rivista “Credere Oggi” e dal 2006 al 2013 del “Messaggero di sant’Antonio”, autore di un libro fresco di stampa (“L’omelia, evento comunicativo”, Edizioni Messaggero Padova 2015).
L’omelia è un evento comunicativo, ma mai come oggi pare veicolare un messaggio a rischio, perdendo costantemente consensi. Quali le cause di questa crisi? Scarsa preparazione dei predicatori oppure c’è dell’altro?
“La preparazione immediata c’è, bisogna riconoscerlo, perché l’impegno di molti preti in vista della predicazione domenicale è notevole e lodevole. Solo che a essere determinante è più la preparazione remota che quella prossima, vale a dire la lettura di romanzi e saggi, la visione di film e la partecipazione a dibattiti culturali, insomma l’attenzione all’habitat mediatico e culturalmente eclettico nel quale vivono i nostri contemporanei. Oggi non si tratta più di alzare il volume, ma di trovare la sintonia giusta, e questa passa attraverso la cultura che tutti respiriamo. Per dire la differenza del Vangelo, dobbiamo essere abitatori del nostro tempo”.
E il contesto liturgico? Come tenerne debitamente conto?
“L’omelia non è una predica dentro la Messa, ma fa parte dell’azione liturgica tutta orientata a Cristo e al suo farsi presente nella Parola e nel Pane. Le parole del sacerdote sono a servizio di questa presenza reale e misteriosa, per cui devono non solo rispettare ma favorire l’accostamento al mistero della salvezza. Quindi niente performance o exploit personali, ma ricostruzione paziente – come dice Papa Francesco – del dialogo tra Dio e il suo popolo. Questi sono i due fuochi di ogni omelia, per evitare spiritualismi (quando si parla di un Dio senza storia) o derive pragmatiche (in genere quel moralismo generico che prescinde da Dio e certamente non gli fa onore)”.
Volendo sintetizzare con una battuta: spesso si dimentica il testo (la liturgia della Parola) e il contesto (fortemente mediatizzato)…
“Il sacerdote parla dopo la proclamazione del Vangelo, e questa è una grande responsabilità. Deve gettare il seme del Vangelo lontano, a tutti, con abbondanza e soprattutto con fiducia. Deve essere attento ai diversi terreni, cioè agli interlocutori. Capita troppo spesso che i predicatori, anche quelli bravi, siano troppo centrati su se stessi, su quello che devono dire, e in ogni caso lo schema comunicativo che utilizzano è quello ‘dall’alto verso il basso’. Soprattutto attraverso i social media, la gente si è abituata a una comunicazione più fluida, condivisa, non certo unidirezionale, al centro della quale più che il messaggio sta la relazione: tu ci sei per me, piuttosto di quello che tu mi dici. La relazione viene prima del messaggio, e in molti casi è il messaggio stesso. In tal senso anche il predicatore deve curare maggiormente l’aspetto relazionale, la presa di contatto con il pubblico che si trova davanti, da verificare costantemente mentre parla. La predica, oltre che preparata, va costruita tenendo conto degli interlocutori”.
Allora, come entrare in sintonia con i fedeli? Una via potrebbe essere l’utilizzo di strumenti multimediali?
“Sì, ma con intelligenza e soprattutto competenza. Il rischio è quello di un uso banale e dilettantesco di strumenti che anche un bambino saprebbe usare meglio. E poi, forse, la gente è già satura di tecnologia. Siamo troppo webbizzati, e la liturgia dovrebbe anche disintossicare da una certa dipendenza mediatica”.
“Una volta – scrive nel libro – era necessario predicare alla gente le conseguenze pratiche del credere perché la fede era presupposta”. Come deve essere fatta un’omelia “doc”? E quali frutti bisogna attendersi?
“Quando si parla di primo annuncio dobbiamo essere consapevoli che in verità si tratta del secondo (primo) annuncio, quindi di riannunciare il Vangelo a ex-cristiani, post-cristiani, ‘cristiani della soglia’, cristiani diventati tiepidi che ancora frequentano occasionalmente le nostre assemblee domenicali o partecipano a battesimi, matrimoni, funerali. In ogni caso, non bisogna mai dare per scontata la fede: questa non va presupposta ma suscitata e poi accompagnata fin dai primi passi. Una predica ‘doc’ è quella che ritorna sempre di nuovo alle radici della fede, per mettere a dimora il buon seme del Vangelo”.
Il sottotitolo del suo volume recita “In cerca di tratti francescani”. Dovesse stilare un decalogo francescano per il predicatore, cosa inserirebbe?
“Un decalogo francescano è per forza di cose un decalogo cristiano, valido per tutti: 1) Omelie brevi; 2) Con un tono cordiale e amichevole; 3) Che non prescindano mai dal Vangelo appena proclamato e ascoltato; 4) Che puntino sulla relazione con la gente che si ha davanti; 5) Che parlino di Gesù Cristo e… della misericordia di Dio; 6) Che siano davvero Vangelo, cioè ‘buona notizia’ per l’oggi; 7) Che dicano quanto la vita cristiana è bella e gioiosa, senza insistere troppo sul ‘doverismo’; 8) Che invitino a fidarsi del Dio affidabile; 9) Che comunichino il ‘gusto’ del cristianesimo; 10) Che aprano alla speranza”.
Vincenzo Corrado