Daniele Don Nandino Capovilla, consigliere nazionale di Pax Christi: “La nostra casa deve continuare ad avere quei ponti necessari alla continua comprensione dell’altro, del nostro vicino, che non è un nemico. Non trasformiamo la nostra casa di valori di accoglienza, di tolleranza, di libertà e di diritti in un castello inespugnabile. Se facciamo così trasformiamo le incomprensioni in conflitti”.
“Niente è più come prima”: la strage del 7 gennaio al settimanale satirico “Charlie Hebdo” di Parigi “non va letta come un evento isolato riguardante solo la Francia. Dobbiamo, invece, interpretare con maggiore saggezza il movimento dei popoli e le terribili soluzioni che invocano la violenza, il terrorismo sia esso dei singoli, di Stati, di movimenti, per destabilizzare e impedire all’unione delle Nazioni di affrontare i veri problemi in Africa, in Medio Oriente e nelle zone più instabili del pianeta. Se guardassimo ai fatti di Parigi sganciandoli da questo più ampio contesto, saremmo miopi”. Ne è convinto donNandino Capovilla, fino al 2013 coordinatore di Pax Christi Italia di cui oggi è consigliere nazionale. Da sempre impegnato a favore del dialogo tra israeliani e palestinesi e nella promozione di azioni di pace e di solidarietà in tutto il Medio Oriente, don Capovilla invita ad “aprire entrambi gli occhi a tutto il Mediterraneo, dalla Spagna al Medio Oriente, passando per Gaza, dove solo pochi mesi fa si contavano duemila morti per il conflitto. Se guardiamo a ogni fatto in modo isolato rinunciamo a comprenderne le logiche che devono essere quelle della giustizia, della pace, del diritto per tutti i popoli”.
Non le sembra un esercizio difficile, don Capovilla, soprattutto quando si è di fronte a tanta violenza che pare aver spazzato via tutto quel patrimonio di umanesimo che ha fatto ricco l’Occidente?
“Adesso non bisogna cadere nell’errore, grande, di arroccarsi nel proprio fortino di valori. La nostra casa deve continuare ad avere quei ponti necessari alla continua comprensione dell’altro, del nostro vicino, che non è un nemico. Non trasformiamo la nostra casa di valori di accoglienza, di tolleranza, di libertà e di diritti in un castello inespugnabile. Se facciamo così trasformiamo le incomprensioni in conflitti. I mei valori devono diventare una piazza in cui mi confronto con quelli dell’altro. Quando ci sono muri e pregiudizi tra le due parti non è possibile dialogare. La Terra Santa, purtroppo, ce lo sta dimostrando. Il dialogo è la via più lunga e faticosa ma è quella che porta alla soluzione. Esportare la guerra per dimostrare che il mio castello è più forte del tuo è stato sbagliato e i risultati sono sotto gli occhi di tutti”.
A leggere i commenti sui social network dopo la strage, appare chiaro come siano in tanti – e tra loro anche politici – quelli che nell’opinione pubblica spingono, anche sull’onda emotiva, per la via corta della ritorsione piuttosto che per il dialogo…
“Abbiamo una grande responsabilità nell’uso delle parole e nel cancellare quelle ambigue che classificano l’altro come nemico riducendone al minimo la sua capacità di essere un partner di dialogo”.
Come la comunità dei credenti può contribuire a costruire questa mentalità?
“Tenendo presente la prospettiva indicata da Papa Francesco che invita a uscire verso le periferie. Così facendo le possiamo conoscere e comprendere quanto i popoli oppressi soffrano l’ingiustizia. Affrontare il terrorismo con la guerra non ha fatto altro che generare altro terrorismo e altre violenze”.
A riguardo, gli errori compiuti dalla Comunità internazionale sono sotto gli occhi di tutti. Pensiamo alla guerra in Afghanistan, in Siria, a quella contro lo Stato Islamico. Dove sta lo sbaglio?
“Lo sbaglio? È stato quello di utilizzare lo stesso strumento del terrore. Non lo chiameremo terrorismo ma è una violenza che si ritorce contro di noi. Quello che ci aspettavamo di risolvere in Libia con l’intervento militare ci si ritorcerà contro come avvenuto in Siria e in altre zone calde del mondo, anche in termini di movimenti umani, di popoli. Questi non potendo più sopravvivere nel loro Paese emigrano. Invece di tirare su dei muri dovremmo gettare ponti per il rispetto delle libertà fondamentali che ogni popolo ha diritto, nella sua terra, di vedere garantite”.
Sul piano del riconoscimento dei diritti umani, e dei doveri, non si può e non si deve tornare indietro. Ciò implica una serie di scelte, anche forti, a loro difesa…
“Cominciamo, per esempio, a ripristinare tutti i possibili canali di dialogo che è l’unica via per trovare soluzione ai conflitti. Non si può predicare la pace per il Medio Oriente se poi si pensa che tutti i musulmani facciano parte dello Stato Islamico. È quanto mai necessario avviare processi di conoscenza reciproca, di accoglienza per dare corpo a rapporti di fiducia a cominciare dalla realtà in cui ciascuno di noi si trova a vivere e a operare. Rompere così quella logica della ritorsione, della vendetta, della violenza che si è dimostrata più che fallimentare”.
Daniele Rocchi