Integrazione possibile / Ripartire dalle carceri per sostenere l’Islam più moderato e combattere la radicalizzazione

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La difficoltà di gestire a medio e lungo termine la presenza dell’Islam nel nostro Paese e il costume tutto italiano d’inseguire le emergenze. È il parere “fuori dai denti” di Paolo Branca, docente di lingua e letteratura araba all’Università Cattolica di Milano, all’iniziativa presa dal ministero dell’Interno di riunire, lunedì 23 febbraio al Viminale, 15 leader di comunità islamiche per combattere le derive della radicalizzazione e riaprire un vecchio PaoloBrancapcapitolo rimasto in sospeso: l’istituzione di un “tavolo permanente di consultazione”. “Quello che voglio dire – spiega il professore che negli anni passati ha fatto parte del Comitato per l’Islam italiano istituito dal ministro Pisanu – è che la musica la devi scrivere tu. Ma se tu dici: mettetevi insieme e ognuno suona quello che vuole, ne viene fuori una cacofonia allucinante. Si fa la figura di aver fatto qualcosa ma poi tutto rimane come prima”.

Insomma professore, che cosa non la convince?
“Quello che mi preoccupa è che si tratti di un’iniziativa che risente di un vecchio vizio italiano e, cioè, che si riparte ogni volta da Adamo ed Eva quando c’è un’emergenza. Il timore è che anche questa iniziativa rischia di fare la fine che hanno fatto le altre. Non so fino a che punto ci sono la volontà, i mezzi e soprattutto la visione a medio e lungo periodo per affrontare i problemi che sono emersi in passato e mai superati”.

Quali?
“Innanzitutto la litigiosità dei musulmani. Litigiosità che aveva convinto Maroni a non far più una consulta ma un comitato di tecnici, proprio per superare le divisioni interne che avevano praticamente bloccato il lavoro precedente. Ci sono varie anime dell’Islam italiano. Speriamo che riescano a lavorare insieme. La spinta dell’Isis e soprattutto i fatti di Parigi hanno sicuramente indotto il governo ad aprire un dossier che è stato dimenticato per troppo tempo”.

Si è parlato d’istituire un albo degli imam. Lei cosa ne pensa?

“L’albo degli imam? Bisogna capire come deve essere fatto. Chi è un imam, quali qualifiche deve avere, quali studi deve aver fatto? È un grosso tema perché spesso nelle comunità islamiche l’imam è la persona più anziana e carismatica ma che spesso non ha fatto alcun tipo di studi religiosi. Fare l’albo non risolve questo tipo di carenza di preparazione. Quindi mi domando: l’Italia è in grado di fornire possibilità di formazione a queste persone o si limiterà semplicemente a riconoscere quelli che arrivano con titoli presi all’estero, ammesso che li abbiano?”.

E sulla campagna mediatica web che si vuole fare contro l’Islam radicale?
“Ma va benissimo. Però anche lì, fare una campagna mediatica per dire che l’Islam non è violento, quando in tutti questi anni, abbiamo ignorato quei tanti bravi musulmani che vivono e lavorano in Italia. C’è una vita quotidiana che è stata completamente ignorata dai media. Mi sembra schizofrenico dire: faccio una campagna mediatica per dire che l’Islam non è cattivo, e poi continuo a ignorare le cose belle che succedono tutti i giorni. Bisognerà vedere come sarà fatta, perché gli spot antirazzisti lasciano sempre il tempo che trovano”.

Eppure qualcosa andrà fatto. Quale arma usare contro la radicalizzazione?

“La cartina tornasole sarà la questione delle carceri. L’Italia è l’unico Paese europeo che non fa nulla per prevenire la radicalizzazione dei musulmani in carcere. Ci sto lavorando da anni ma è un’impresa quasi disperata avere a che fare con le amministrazioni carcerarie”.

Cosa intende per lavorare nelle carceri? Cosa fare e con chi?

“Penso a dei corsi per detenuti sulla cultura e la letteratura per attrezzare queste persone a conoscere la grandezza della civiltà islamica non in chiave puramente religiosa o confessionale ma più largamente antropologica e culturale. Corsi che facciano venire voglia di prendere in mano i libri e ritrovare il rispetto per se stessi e per il patrimonio di valori e cultura di cui sono in qualche modo depositari. Percorsi che li attrezzino per non cadere nelle trame non solo del terrorismo ma anche della violenza. Nel carcere di Bologna, per esempio, c’è quest’anno una serie di 20 incontri sulla Costituzione italiana. C’è la necessità di avviare attività concrete, anche piccole, non necessariamente mastodontiche e costose. Iniziative che siano però da modello, testate per alcuni mesi e poi documentate per farne progetti che vadano avanti e diano risultati”.

Maria Chiara Biagioni

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