Dottrina sociale / Diritto alla vita: se il giudice in terra si fa arbitro del bene e del male

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diritto alla vita

Quando Fabrizio De Andrè tratteggiò nel brano Il Giudice uno dei ritratti più iconici della galleria dei personaggi delle sue canzoni, sfuggì forse ai più, per l’accentuata e sardonica caratterizzazione, il tenore quasi profetico di un epiteto che ne configura il protagonista, al raggiungimento del suo agognato traguardo professionale: Giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male.

Verso un po’ inquietante che risuonava già allora come un’anticipazione e che si ripropone oggi in tutta la sua attualità, alla pubblicazione, lo scorso 8 luglio, della sentenza della Corte Costituzionale n.135 sul suicidio assistito e sulle esimenti dall’imputabilità penale.

Rievocando quanto già espresso nella precedente sentenza n.242/2019, ad esito di una rivisitazione  dell’excursus culminato con l’approvazione della legge n. 291 del 2017, la Consulta ha ribadito alcuni principi normativi, invitando il Parlamento a trasfonderli senza indugi nella sede legislativa.

Alcuni senza dubbio condivisibili. Anzitutto, la tutela dei più fragili rispetto a possibili abusi e strumentalizzazioni promananti da una certa spinta sociale a sentirsi un peso per gli altri. Con la possibile conseguenza di indursi a optare per la richiesta di morire. Altresì, l’inderogabilità della somministrazione di cure palliative appropriate, da doversi assicurare a tutti, senza eccezioni. Ancora, in attesa dei futuri interventi legislativi, la previsione del parere necessario ma non vincolante, dell’istituendo comitato etico territoriale. (Foto

manifestazione pro vita
(Foto Siciliani/Gennari/Sir)

Di contro, ed è quel che qui più conta; in presenza dei presupposti di legge concretanti delle situazioni complessive di intensa “sofferenza esistenziale” e previa autorizzazione alla procedura da parte delle strutture del servizio sanitario pubblico, il diritto al suicidio assistito secondo il protocollo medicalizzato di cui all’art.1 della legge n.291 del 2017. E quindi, in tali casi, la non punibilità di chi abbia prestato l’assistenza al suicidio. Diritto perorabile al giudice ove l’autorizzazione sia disattesa pure in presenza dei requisiti di legge.

Dato per scontato l’assioma che le sentenze si rispettano, non ci può esimere da un suo vaglio etico. Al di là delle implicazioni stricto iure e dei rilievi che possono muoversi in punto di diritto penale, il cui approfondimento esula da questa sede, due ritengo siano i profili etici che debbano impegnare i credenti ad una più attenta riflessione. Il primo: la consonanza o meno dei principi ivi espressi, con la Parola e i dettami della Dottrina Sociale della Chiesa. Il secondo, strettamente conseguente al precedente: quali reazioni ci si attende essa debba suscitare e quali in effetti stia suscitando.

Già a una prima analisi si staglia il vulnus che inficia in nuce il percorso argomentativo seguito dai giudici della Corte Costituzionale. E così i principi ispiratori che essi hanno inteso farne conseguire. Cosa si intende per sofferenza esistenziale? E chi e come, sanitario o politico o giudice che sia, può realmente stabilire in cosa consista e se nel caso sussista.
E’ evidente come il ricorso ad allocuzioni generiche soccorra a dissimulare l’insuperabile difficoltà di definire in maniera piena ed esatta l’entità, i contorni e la natura stessa di un disagio, un dolore, che investe l’uomo nella sua profondità e interezza di corpo, anima e spirito. Perciò ignoto forse un po’ pure a se stesso; di certo agli altri; e scrutabile solo da Dio. Per cui il fulcro nodale della questione si risolve nella definizione di una comoda ma vuota categoria formale. Se non una vera e propria petizione di principio.

Biblioteca della Consulta
Biblioteca della Consulta

Il punto è, se pur ormai pressochè relegato nell’oblio, che non è dato all’uomo decidere, neppure per l’interposta persona di giudici terreni o di delegati elettivi, di togliersi la vita. Come e quando. Nessun giudice o legislatore può sostituirsi a Dio. Stabilendo con criteri autoreferenziali, tempi e modalità dell’incontro tra Creatore e creatura, dell’abbraccio tra Sposo e sposa, a Lui solo riservati.

Il substrato culturale sui cui si fonda l’attuale prevalente orientamento giurisprudenziale è evidente retaggio di una tradizione ormai secolare che affonda le radici nelle teoriche filosofiche illuministe. Per cui la società umana sarebbe nata dal continuo succedersi di una contrattazione tra gli individui che affinchè ne ad arma veniant, si confrontano in sistemi definiti democratici, nelle varie accezioni assunte storicamente. Delegando alle maggioranze la prerogativa di stabilire regale valide per tutti. La cui attuazione a tutela del diritto e della pace sociale, sia assicurata dall’ordinamento giudiziario. E però sempre più invasive. Al punto di ridefinire l’identità stessa dell’uomo e decretarne la morte.

Tutto ciò risale a un errore di base, ben noto ai credenti, secondo il quale la società nasce dall’uomo e non da Dio. Invece è Dio Padre che dà vita alla società umana (maschio e femmina li creò), dando mandato all’umanità di governare il creato. Concorrendo persino alla Sua opera creatrice (Gen.2,27-29). Se l’umanità è immagine di Dio, l’uomo non può che recare iscritte nel proprio animo le sue regole. Esse sono già impresse ontologicamente e costitutivamente nel suo cuore (2 Cor.3,3; Rom.7,7). Pertanto la fonte archetipa dei diritti umani non si riconduce alla volontà di gruppi di uomini o alla realtà dello Stato o a poteri pubblici. Ma all’uomo stesso e quindi in via originaria a Dio suo creatore (Pacem in terris, 1963.55; Gaudium et Spes 1965,42).

La loro ratio è perciò da ricercare nella dignità che appartiene ad ogni essere umano, sacra e uguale per ognuno (Gaudium et Spes 1965,41). Essi si compendiano nel Diritto Naturale, inteso come legge eterna di Dio infusa alle sue creature. In questa solo riposa la vera libertà dell’uomo e il rapporto di dipendenza della Libertà dalla Verità: Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi (Gv.8,32) Al di fuori della Legge Naturale di Dio non può esservi verità e quindi al di fuori del Diritto Naturale non può esservi un effettivo diritto umano. Legge naturale fondativa d’una società giusta, solo nel rispetto della dignità trascendente dell’uomo. Il cui valore primario e essenziale è costituito dalla vita, quale dono; comunque da lui irrinunciabile.

 

Perciò il Magistero si è sempre espresso a una sola voce nella condanna del suicidio volontario e di ogni forma di assistenza o peggio di induzione a esso, come uno dei peccati più gravi. In ogni caso. Annoverato dai Padri Conciliari negli atti intrinsece malum, intrinsecamente cattivi, come ribadisce San Giovanni Paolo II: Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l’integrità della persona umana… tutto ciò che offende la dignità umana… tutte queste cose sono di certo vergognose e mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si comportano, che non quelli che le subiscono, e ledono grandemente l’onore del Creatore (Veritatis Splendor 1993,80).

Ancora, San Giovanni Paolo II: La nostra attenzione intende concentrarsi, in particolare, su altro genere di attentati concernenti la vita nascente e terminale, che presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di «delitto» e assumere paradossalmente quello del «diritto», al punto che se ne pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l’intervento gratuito degli stessi operatori sanitari. Tali attentati colpiscono la vita umana in situazioni di massima precarietà, quando è priva di ogni capacità di difesa. Ancora più grave è il fatto che essi, in larga parte, sono consumati proprio all’interno e ad opera di quella famiglia che costitutivamente è invece chiamata ad essere «santuario della vita (Evangelium vitae, 1995,11).

Come temuto dal santo di Cracovia, ben presto dalla teorizzazione si è poi passati alla legiferazione. Ma è il caso di dire: non si demorde. Nell’alveo tracciato dai documenti conciliari e da San Giovanni Paolo II si è posta di recente la Congregazione per la Dottrina della Fede, con la lettera Samaritanus bonus sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, pubblicata il 22 settembre 2020. Pregevole attualizzazione della figura del Buon Samaritano, modello da seguire nelle sfide odierne.

La vita ha la medesima dignità e lo stesso valore per ciascuno: il rispetto della vita dell’altro è lo stesso che si deve verso la propria esistenza. Una persona che sceglie con piena libertà di togliersi la vita rompe la sua relazione con Dio e con gli altri. E nega sé stessa come soggetto morale. Il suicidio assistito ne aumenta la gravità, in quanto rende partecipe un altro della propria disperazione, inducendolo a non indirizzare la volontà verso il mistero di Dio, attraverso la virtù teologale della speranza. E di conseguenza a non riconoscere il vero valore della vita e a rompere l’alleanza che costituisce la famiglia umana.

Aiutare il suicida è un’indebita collaborazione a un atto illecito, che contraddice il rapporto teologale con Dio e la relazione morale che unisce gli uomini affinché condividano il dono della vita e compartecipino al senso della propria esistenza. Quand’anche la domanda di eutanasia nasca da un’angoscia e da una disperazione,[41] e «benché in casi del genere la responsabilità personale possa esser diminuita o perfino non sussistere, tuttavia l’errore di giudizio della coscienza – fosse pure in buona fede – non modifica la natura dell’atto omicida, che in sé rimane sempre inammissibile».[42] Lo stesso dicasi per il suicidio assistito. Tali pratiche non sono mai un autentico aiuto al malato, ma un aiuto a morire.

A fronte dell’ignavia, e vorrei dire infingardia esibita in sentenza, tale documento fà tremare i polsi: L’eutanasia è atto omicida che nessun fine può legittimare e non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva. Quelli che approvano leggi sull’eutanasia e sul suicidio assistito si rendono, pertanto, complici del grave peccato che altri eseguiranno. Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli.[40]

Più che la tempestività dei legislatori essi avrebbero fatto bene a sollecitare…la misericordia di Dio. Che poi si provi a cercare di confondere l’accanimento terapeutico, improponibile. Con la prossimità compassionevole, corredata se del caso da cure palliative, auspicabile. E’ un tentativo mistificatorio i cui intenti divisivi e diversivi non sfuggono ai credenti, a cui i rispettivi confini restano ben chiari.
Precisa infatti al riguardo il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede: La rinuncia a tali trattamenti, che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle cosiddette dichiarazioni anticipate di trattamento. Escludendo però ogni atto di natura eutanasica o suicidaria.[

Non sarà di certo un giudice o il legislatore a poter indurre a dei tentennamenti. A meno di abiurare. Per il secondo profilo che qui ci occupa, non possiamo sottacere alle reazioni di diversi cattolici, anche impegnati nell’associazionismo pro vita, che dubbiosi se dolersi per il bicchiere mezzo vuoto  o rallegrarsi per il bicchiere mezzo pieno, forse nel timore che alla fine possa essere svuotato del tutto, hanno preferito accontentarsi. Un po’ come già avvenuto per la legge sull’aborto.

Mai come in questo caso però, in medio non stat virtus. Il punto è infatti, che sui valori non negoziabili, in primis la difesa della vita sempre e comunque, non possono essere assunte posizioni utilitaristiche, e quindi di tolleranza, se non adesione, a soluzioni di apparente compromesso. Ma che in realtà sono volte essenzialmente a consolidare, secondo i disegni ad esse sottesi, dei principi non di vita, ma di morte.

In tal senso il Magistero, e ancor prima la Parola stessa, ci chiamano a una forte professione di fede.
Nel rispetto di istituzioni democratiche e principi costituzionali può fondarsi il diritto di resistenza.  Da dover esercitare in sede di una corretta informazione, elaborazione culturale e proposta politica. Per la salvaguardia e la più ampia condivisione del principio dell’assoluta inviolabilità della vita.

Traendo abbrivio dall’art.32 della Costituzione, a mente del quale La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana, in combinato disposto con le previsioni dell’art.2 quando sancisce che La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. E da qui difendere in ogni modo il principio per cui il primo diritto inviolabile dell’uomo è alla vita. Facendone l’architrave nei vari ambiti del dibattito culturale, impegno etico e confronto politico. Ricordando sempre il monito di Pietro: Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (At.5,29).  E’ a Lui alla fine che bisognerà dar conto del proprio operato, soprattutto se colpevolmente inerte.

Il quadro sinistro, quasi distopico ai tempi, schizzato nei versi del Faber, pare oggi prendere forma. L’uomo si fa giudice sulla terra, estromettendo Dio. E proprio intorno al valore più alto, divenuto il più acceso terreno di contesa nella lotta atavica e per sempre attuale tra il bene e il male: la vita.

Riecheggia per ogni credente, l’invito all’impegno indefesso, profuso dal Salmista …Ho annunziato la tua giustizia nella grande assemblea; vedi, non tengo chiuse le labbra, Signore, tu lo sai. Non ho nascosto la tua giustizia in fondo al cuore, la tua fedeltà e la tua salvezza… [Salmo 39 (40)]. Sapremo onorarlo con la saldezza di una coerenza che promana da una fede viva ed indefettibile?

Giuseppe Longo
avvocato
                        docente di discipline giuridiche ed economiche