Fedele alla tradizione che la vuole piuttosto prolifica prima della pausa feriale, con la recentissima sentenza n.143, resa il 23 luglio la Corte Costituzionale ha ribadito, sotto il profilo giuridico, ciò che per la fede cattolica, e sarebbe il caso di dire pure per il senso comune, è di solare evidenza: non esiste un terzo genere!
Rigettando la questio di costituzionalità posta da un giudice altoatesino, la Consulta ha troncato sul nascere le velleità di chi intenda affermare l’esistenza di un genere non maschile e non femminile. A una prima disamina le motivazioni dispiegate possono apparire non del tutto risolutive. E comunque ancorate più a vincoli formalistici, che a evidenze antropologiche. Non per questo, e anzi forse proprio per ciò, si impone a tutti i credenti una rivisitazione e una inevitabile riflessione.
Due le questioni sollevate dal Tribunale di Bolzano. All’apparenza indipendenti, in realtà correlate secondo una logica di palese propedeuticità e proposte l’una come l’esca per la pesca dell’altra. Se la richiesta di caducazione di un’autorizzazione del giudice al trattamento medico-chirurgico, quando le modifiche dei caratteri sessuali già operate siano ritenute sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione e di attribuzione del sesso, è stata accolta dalla Corte. Sul presumibile assunto che vincolare ancora l’apertura del recinto, quando i buoi ne siano già usciti, sia quanto meno anacronistico, se non pleonastico. Ben diverso il peso dell’altra, il vero casus belli.
Una richiesta di attribuzione ad “altro sesso”, non maschile nè femminile
Si è posto alla Corte il caso di una persona di sesso anagrafico femminile che, non riconoscendosi in tale genere, né in quello maschile, ma in un genere non binario, si è rivolta alle strutture sanitarie pubbliche, ricevendo diagnosi di disforia o incongruenza di genere, per identificazione non binaria, con inclinazione al polo maschile. Ha così chiesto al Tribunale di Bolzano la rettifica di attribuzione del sesso, da femminile ad “altro”.
Non potendone accogliere il ricorso, poichè la legge non prevede l’esistenza di un terzo genere, non maschile e non femminile (e vorrei ben dire); il giudice, piuttosto che rigettarlo, ritenendo che la normativa italiana, non adeguatasi a quella in evoluzione nel Foro Europeo, sia in contrasto con gli artt.2, 3, 32 e 177 co.1 della Costituzione, ha chiesto di caducarla. Rendendo così possibile all’ufficiale di stato civile, effettuare la modifica del sesso nel genus “altro”.
A presunto conforto il giudice – si badi bene, non solo il ricorrente, ma pure il tribunale – ha sostenuto l’illazione che la psicologia sociale avrebbe ormai acquisito una concezione non binaria dell’identità di genere, sul condiviso presupposto che il genere stesso non sia determinato unicamente dai dati morfologici e cromosomici, ma altresì da fattori sociali e psicologici.
La Consulta non riconosce il terzo genere
Sono intervenuti in giudizio, a supporto delle tesi del ricorrente, delle associazioni LGBT e a confutazione, il Centro Studi “Rosario Livatino”. Rivendicando i principi del diritto naturale e i valori della Dottrina Sociale della Chiesa.
Dichiarando intanto di scarso pregio scientifico quell’illazione, la Consulta ha rigettato la questione.
Se pur il dispositivo della sentenza è netto, le motivazioni destano perplessità; e pure inquietudine. Infatti, la Corte non ha ritenuto di dover dare giustizia in base alle evidenze delle leggi di natura. Anzi, facendo trapelare tra le righe in modo nient’affatto celato, una sorta di rlspetto per le esigenze propalate dal ricorrente per l’identificazione in un terzo genere, secondo i principi degli articoli 2, 3, 33.
Ha invece preferito trincerarsi dietro i vincoli formalistici rinvenibili nell’assetto normativo vigente. Per cui l’introduzione di un terzo genere avrebbe un impatto generale. Richiedendo molteplici interventi legislativi in vari settori dell’ordinamento, per i numerosi istituti regolati con una logica binaria. Ad esempio, in materia di diritto dello sport, di diritto di famiglia, di diritto del lavoro, di diritto alla riservatezza, etc.
Com’è evidente, ci si basa non su principi costituzionali, ma su norme di rango legislativo ordinario. Come tali, modificabili in qualsiasi momento, sulla sola base di mutabili maggioranze parlamentari.
Il richiamo della Corte a norme di diritto ordinario si rivela quindi debole e potenzialmente pericoloso.
Evidenti perplessità….
E’ evidente che, se il getto della rete non ha ancora raccolto il pesce più pregiato, il tenore della sentenza della Corte non è affatto cosi lapidario come analisi superficiali potrebbero far intendere.
Da qui l’onere per i credenti, sulla scia di quanto già dispiegato in sede giudiziale dal Centro Livatino, di far sentire in ogni ambito una voce unanime, chiara, decisa e puntuale sulla stessa identità umana. Ispirandosi ai principi del diritto naturale; nella costante rilettura della Dottrina Sociale della Chiesa.
Sin da Genesi, ove è chiaro, che per la sua origine divina, l’uomo è creato maschio e femmina. Preordinati a una dimensione relazionale; essa stessa Imago Dei, della relazione tra Padre e Figlio.
Come rievocato in pagine mirabili della Costituzione pastorale Gaudium et spes e della Esortazione Apostolica Christifideles laici. Punto.
Muovendo innanzitutto dal formidabile caposaldo del diritto vigente, l’articolo 29 della Costituzione; inspiegabilmente omesso nella motivazione della pronuncia della Consulta e che per tutti i cittadini, credenti e non, riconosce i diritti della famiglia come una società naturale fondata sul matrimonio. E così, come presupposto implicito, ma incontrovertibile, la natura stessa della società su base binaria, per utilizzare un termine in voga, ma che sarebbe molto più corretto emendare in complementare.
Su ciò dovrà incentrarsi la nostra vigilanza, per prevenire la diffusione di un humus ora già fertile.
Giuseppe Longo