E’ morto Antonino Corvaia: era uno dei pochissimi superstiti della tragedia di Cefalonia del 1943

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Lo scorso 16 agosto, all’età di 90 anni, è morto Antonino Corvaia, uno dei pochissimi superstiti della tragedia che si consumò nell’isola greca di Cefalonia a seguito dell’armistizio con le forze anglo-americane, firmato a Cassibile il 3 settembre 1943. I soldati italiani rimasero senza disposizioni precise in balia dei tedeschi, fino al giorno prima cobelligeranti. Alla richiesta dei tedeschi di consegnare le armi, il generale Gandin, comandante della Divisione Acqui, dopo ampie consultazioni nel corso di una settimana per la ricerca di un compromesso, sentiti i soldati, si rifiutò di cedere le armi e ci fu il massacro: 9406 morti.

Oltre 1300 caddero durante gli accaniti combattimenti che si svilupparono in tutta l’isola, oltre 5000 vennero passati per le armi o fucilati dopo la resa, altri 3000, fatti prigionieri, scomparvero in mare a bordo di tre navi che urtarono delle mine. In 11.700 furono costretti dalla sorte a trasformarsi in guerrieri per tener fede ad un giuramento: chiamati a scegliere tra la vita e l’onore, scelsero l’onore sacrificando la vita. Antonino Corvaia si salvò per miracolo attaccato a una tavola dopo la disintegrazione, causata da una mina, della nave su cui era stato costretto ad imbarcarsi come prigioniero. In mare aperto vide morire tanti suoi compagni. Infine fu rimorchiato da una nave in transito, fu rinchiuso in un campo di concentramento di Atene e successivamente fu portato da Patrasso a Belgrado in Jugoslavia. Da qui, dopo il bombardamento degli Americani che provocò circa 700 morti, i tedeschi condussero i prigionieri a Segni Marittimo (vicino Fiume) e poi a Mitrovitza in Macedonia, dove una colonna di bulgari li liberò dai tedeschi. Ma non finì lì, Corvaia e i suoi compagni di sventura nel maggio del 1944  furono trasportati a Divra e a Skopie, dove vennero costretti a lavorare come schiavi alla costruzione di una linea ferrata; da magiare un po’ di granturco e bucce di fagioli. Infine Corvaia giunse a Bercico in Montenegro, dove gli fu imposto ancora una volta di lavorare con pochissimo cibo. Ritornò a casa soltanto alla fine del 1946, ma non trovò più suo padre e sua madre, morti durante il periodo di guerra.

Rimasto orfano, fu ospitato dalla zia e, per qualche tempo, dal fratello. Era originario di Macchia di Giarre, ma, dopo essersi  sposato, nel 1948 andò ad abitare a Linera, nel comune di Santa Venerina, dove è vissuto fino alla morte, consolato dalla presenza dei figli. Tantissimi i riconoscimenti ricevuti, a cominciare da quello della Presidenza della Repubblica, altrettante le testimonianze che lo stesso Corvaia ha portato nelle scuole e negli incontri pubblici. La sua scomparsa ha destato commozione in chi lo conosceva e lo considerava un amico sincero, sempre pronto a raccontare le atroci sofferenze subite e, soprattutto, i momenti tragici sull’isola di Cefalonia.

Giovanni Vecchio

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