Economia / Contro la deflazione “creare domanda”

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Il dato che nei giorni scorsi ci ha ufficialmente immersi nella deflazione (i prezzi di merci e servizi non solo non crescono, ma addirittura calano), ha pure tolto il velo che avvolgeva la verità sullo stato di salute dell’economia del nostro Paese. Non stiamo vivendo un seppur lunghissimo periodo di recessione, alla quale seguirà un’inevitabile ripresa, un rimbalzo; siamo dentro una spirale negativa dalla quale è difficilissimo uscire. E non è la teoria economica a dichiararlo, ma la realtà di quanto è successo ad un Paese assai simile al nostro per vari aspetti, il Giappone.
Qui hanno combattuto per più di vent’anni senza alcun successo contro la deflazione (che, ricordiamolo, è figlia di un calo dei consumi che genera minor produzione, minor occupazione, minor reddito, quindi minori consumi e via così); ne stanno uscendo solo ora grazie ad una coraggiosa, pericolosissima mossa che a noi è proibita: la Banca centrale nipponica ha letteralmente regalato soldi ai suoi concittadini, stampando moneta a più non posso e sperando così di riattivare investimenti e consumi.
Appunto, noi non lo possiamo fare: abbiamo perso la sovranità sulla nostra moneta. E non si conoscono tanti altri rimedi a una malattia così grave e difficile da curare. Abbiamo sperimentato la politica dei tanti piccoli aggiustamenti (Enrico Letta), dichiarata fallita dopo un anno; stiamo sperimentando quella delle tante riforme strutturali (Matteo Renzi), o almeno ci stiamo provando nella consapevolezza che questo è un Paese anchilosato, ogni piccolo cambiamento sembra quasi impossibile; e nella speranza che l’olio delle riforme tolga la ruggine attorno a un’economia che comunque sa essere dinamica e capace.
Ma il vero problema è non perdere di vista il… vero problema: un gioco di parole per smascherare qualcosa che sta accadendo nel nostro Paese nel silenzio di politica e media. Perché i dati statistici sono sempre delle medie, ma analizzandoli si scopre che si sta approfondendo sempre di più la spaccatura tra un Nord in linea con le migliori economie europee, seppur anch’esso in difficoltà; e un Sud che si pone agli ultimi posti nel tasso di sviluppo economico dell’intero continente. Tanto per dire, la disoccupazione media nel Nord sta poco sopra l’8 per cento; a Mezzogiorno sale al 20. I consumi tengono (a fatica) da Roma in su; crollano in direzione opposta.
Attenzione, perché divari di tal genere sono veri tumori dentro il corpo sociale di un Paese. Non solo non vediamo attenzione verso questo fenomeno, ma nemmeno rimedi per arginare fenomeni quali ad esempio la silente emigrazione che spinge le migliori teste e braccia di Sicilia, Puglia, Calabria, Sardegna a cercare fortuna altrove, lasciando dietro le spalle società sempre più vecchie, povere, assistite. Quante aziende del Nord investono nel Mezzogiorno piuttosto che in Slovacchia o Romania? Quante multinazionali impiantano le loro filiali italiane sotto Roma? Quante sono le banche made in Sud? Può un Paese riemergere se una buona metà lo trascina in fondo?
Forse in questa direzione – dare chance al Sud – va ad esempio la decisione governativa di puntare sull’alta velocità ferroviaria tra Napoli e Bari, di primo acchito incomprensibile. Lo Stato deve saper anche “creare domanda”, come fece con l’Autostrada del Sole cinquant’anni fa quando ancora le auto erano poche pure a Milano. Deve farlo in modo intelligente, sapendo sfruttare i pochi denari a disposizione, creando le condizioni minime per fertilizzare il terreno delle economie locali. Magari evitando di sperperare in opere palesemente assurde come l’alta velocità in terra siciliana. L’Isola delle incompiute (autostrade, gassificatori, aeroporti…) ha bisogno di tutto, meno che di altri cantieri fini a se stessi. A pensarci bene, tutto il Mezzogiorno non ne ha più bisogno.

Nicola Salvagnin

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