Economia / Dove ti porta Marchionne: nel giro di due anni Torino potrebbe uscire dal settore auto

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Quella degli Agnelli è una famiglia storica, per l’economia e l’industrializzazione italiana. Hanno fondato lalingop Fabbrica Italiana Automobili Torino, hanno rilevato la piemontese Lancia, le lombarde Alfa Romeo e Innocenti, le emiliane Maserati e Ferrari. Tra le mani di questa dinastia, ora guidata dal ramo Elkann, sono transitati il Corriere della Sera e la Stampa, Toro Assicurazioni e quote di banche, Magneti Marelli e Iveco… Insomma tantissima industria e tanta finanza.
Ma da alcuni anni, per opera soprattutto dell’amministratore delegato Sergio Marchionne, questa holding economico-familiare ha seguito un percorso di internazionalizzazione che ne ha allargato il perimetro d’affari, ma anche spostato vieppiù i centri decisionali e i cuori aziendali fuori dai confini italiani.
Il matrimonio con Chrysler-Jeep è stato un gran colpo, ma non alla pari: le aziende americane erano e sono ben più grandi dei nuovi proprietari. E così, Fca – la nuova sigla che sovrintende tutto – ha parzialmente trasferito a Detroit e New York i centri decisionali e gli interessi finanziari, mentre la sede legale è stata spostata in Olanda. È la globalizzazione, bellezza.
Ma il disegno della proprietà è ancor più complesso: scorporare e quotare in Borsa il gioiello Ferrari dalla holding automobilistica (e continuarne a tenere salde le redini: Ferrari produce un mare di soldi); creare un’alleanza con un grande produttore automobilistico straniero a cui in pratica consegnare (a buon prezzo) quel che rimane: Fiat, Alfa Romeo, Jeep, Chrysler. Investire le grandi somme ricavate in ben altro, e possibilmente in ogni angolo del mondo. Torino, l’Italia passano in secondo piano, per usare un eufemismo.
Già ora Exor, la finanziaria che ha la quota di maggioranza di Fca, sta investendo in altri settori: assicurazioni, editoria. E la strategia non è balenga: l’auto del futuro richiederà investimenti enormi per ritorni economici bassi. Qui manca la voglia e fors’anche i mezzi per farlo. Meglio scivolare fuori dal settore nel miglior modo possibile, e cioè tenendosi stretto ciò che impegna poco e soddisfa molto (Ferrari, Maserati), e incassando col resto.
Una conseguenza quasi automatica: Fiat diverrà – nel migliore dei casi – un semplice brand che marchierà alcune utilitarie. Altrimenti quelle stesse (Panda, Cinquecento) diventeranno brand autonomi, tipo Ds ex Citroen o la Mini. Pazienza. Ma preoccupano molto di più le conseguenze per il tessuto industriale italiano.
Il gruppo ora ha diverse unità produttive sparse nello Stivale: Melfi, Pomigliano, Cassino, Atessa, Grugliasco… Qui si produce bene, ci sono competenze e indotto preziosi. Ma è anche vero che Fiat a suo tempo ha realizzato fabbriche in Brasile, Polonia (enorme ed efficientissima), Turchia e recentemente in Serbia. Insomma, “l’italianità” che ora fa anzitutto pensare di investire qui, un domani – se ad esempio i marchi finissero in mani americane o giapponesi – non esisterebbe più.
Non stiamo parlando di un orizzonte lontanissimo: Marchionne vuole arrivarci entro un paio d’anni. E l’uomo è molto determinato, con il pieno plauso degli azionisti di riferimento. Insomma, stiamo attenti perché la piccolissima crescita del Pil registrata di fresco dall’Istat, è stata in buona parte determinata dalla buona performance del settore automobilistico. Che sarà pure “old”, ma che è ancora fondamentale.

Nicola Salvagnin

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