La situazione dei conti pubblici italiana è tale che, da una parte, ci sono richieste assai insistenti per incentivare certi settori produttivi; per rimodulare più pesantemente gli assegni familiari; per sostenere con più efficacia chi perde il lavoro in tarda età; per aiutare chi il lavoro non ce l’ha; per non far morire l’editoria minore… E dall’altra l’esigenza improrogabile di tagliare appunto questo folto ramo di spesa pubblica: si parla di cancellare la cassa integrazione; di non confermare i bonus per la ristrutturazione edilizia; di tagliare la deducibilità dei contributi previdenziali volontari e le spese mediche; di eliminare certe agevolazioni alle famiglie; e pure il bonus mobili; di lasciare andare alla deriva l’editoria…
La formula magica per mettere insieme il lupo e la capra – cioè l’aumento di spesa pubblica e il taglio della stessa – si chiama “rimodulazione”. Significa: rimescoliamo le carte, vediamo quelle che funzionano meno e quelle che servono di più al gioco-Italia. Bella idea, salvo il fatto che alla fine della “rimodulazione”, il governo intende spendere meno di quanto fa ora. E questo è chiarissimo e certamente non nascosto. Quindi non sarà un rimescolamento a saldo zero.
Ma come si fa a togliere la cassa integrazione, senza prevedere strumenti di sostegno all’occupazione? Come aiutare di più le famiglie, e nel contempo penalizzarle? Come tagliare gli incentivi alla produzione o al consumo, in un momento di recessione economica e, soprattutto, di consumi interni “gelidi”? A tagliare le pensioni epperò a diminuire i limiti di età per averle?
Come insomma non scontentare gli industriali, i commercianti, i pensionati e i pensionandi, i cittadini nelle vesti di consumatori e di membri di una famiglia, praticamente gli italiani tutti?
È impossibile, infatti. Ma questa si chiama politica, decidere cosa è meglio per una comunità a prescindere dagli interessi particolari. E ogni grande forza politica ha – o dovrebbe avere – una visione particolare del bene comune.
Negli ultimi tempi, ad esempio, è emersa chiaramente la volontà di ribaltare quell’infatuazione localista che aveva portato, negli anni scorsi, a spostare dal centro alla periferia poteri e mezzi. Insomma si sono tagliati pesantemente i trasferimenti ai Comuni, alle Province, financo alle Regioni sotto forma di stretta a quella sanità che dalle Regioni è gestita. Ma non basta, perché il nostro debito pubblico e i vincoli europei ci obbligano a percorsi ben più virtuosi.
E allora sarebbe il caso di rivedere uno degli incentivi pubblici più incredibili che ci portiamo dietro da qualche anno: quello alle energie rinnovabili. Abbiamo dato il nostro contributo alla salvezza del pianeta, danneggiando fortemente la spesa pubblica e il settore energetico interno. Eolico e fotovoltaico assorbono oramai qualcosa come 17 miliardi di euro all’anno di incentivi: una mostruosità, gli acquisti di gas metano dall’estero ci costano di meno!
In più, la situazione sta creando un’anomalia pazzesca: c’è un’enorme quantità di elettricità “pulita” che si riversa in rete, ma senza costanza (tantissima in certe ore, e i prezzi vanno a picco; poco o niente di notte o quando le condizioni climatiche sono sfavorevoli). Ci vorrebbe quella prodotta dalle centrali a gas, che sono però quasi tagliate fuori e in via di dismissione. Per rimanere attive, i produttori chiederanno… incentivi al governo.
Se non è kafkiana, la situazione è quantomeno dispendiosa. Ma, tra un impianto eolico e una famiglia con più figli, noi non abbiamo dubbi su chi debba essere aiutata.
Nicola Salvagnin