Qual è il nostro petrolio? Quale settore potrà garantirci nell’immediato futuro nuova occupazione e crescita del Pil?
Qualcuno sostiene la forza propulsiva della cultura. È vero, l’Italia è il Paese con la maggior quantità (e qualità) di “cultura tangibile” – musei, monumenti, opere d’arte, centri storici… – del mondo; ma è anche vero che non riusciamo nemmeno a pareggiare i costi, che lasciamo andare Pompei in rovina e fatichiamo a trovare fondi per restaurare il Colosseo.
C’è chi spinge invece per il turismo, questo è il Paese del sole che può mettere assieme le Dolomiti con Capri, Venezia con le colline toscane. Si può fare di più, ma in Italia manca la capacità dimensionale: conoscete una sola grande catena alberghiera italiana? Si possono aprire nuove gelaterie o bed and breakfast, ma è difficile pensare a salti di qualità dimensionale tali da portarci, in breve tempo, ai vertici mondiali del turismo. Non a caso stiamo perdendo posizioni anno dopo anno.
In realtà il petrolio buono ce l’abbiamo in dispensa, e soprattutto non ce l’ha nessun altro come noi. È il cibo, l’enogastronomia. A detta di tutti, come si mangia in Italia non si mangia in nessun altra parte del mondo, nemmeno nella celebratissima Francia. Perché coniughiamo qualità dei prodotti (in tutte le lingue del mondo si dice: mozzarella, salame, spaghetti, pizza…) con una capacità diffusa di saperli maneggiare per ricavarne prodotti d’eccellenza e piatti magnifici.
Non a caso il settore food, in Italia, è in costante crescita, e cresce pure la sua capacità di imporsi nei mercati mondiali. Non a caso crea occupazione e reddito come nessun altro. Non a caso vi dedichiamo un’intera Expo milanese, che sarà o dovrebbe essere il suo momento di consacrazione mondiale.
Tutto bene, dunque? Ovviamente no, già a cominciare dal fatto che noi stessi non ne riconosciamo appieno valore e potenzialità. Soprattutto, l’agroalimentare italiano sconta un problema comune al resto dell’economia tricolore, probabilmente frutto di una mentalità diffusa: le dimensioni. Centinaia di ristoranti eccezionali, che messi assieme non fanno un centesimo del fatturato di una multinazionale americana di panini alle polpette; la migliore pizza del mondo, ma i soldi veri li fanno certe catene angloamericane o tedesche: qualità infima, organizzazione eccezionale. Sul caffè, idem. La nostra più grande azienda di pasta è comunque un nano a livello mondiale, e questo determina grandi sforzi per investire nella conquista di qualche mercato straniero, che poi si dimostra sempre ricettivo.
I prosciutti crudi come i nostri, non li fa nessuno. Ma come potremmo soddisfare l’eventuale richiesta dei consumatori cinesi, se anche conquistati dalla dolcezza di un Parma o di un San Daniele? Piccolo non è più bello, perché il vuoto lasciato dalla nostra produzione artigianale – e questo vale per la pasta fresca, il vino, i prodotti confezionati, i dolci… – viene costantemente riempito da qualche industria del Nord Europa o americana. Basta scrivere “parmesan” sulla confezione di orrendo formaggio grattugiato per inondare i supermercati del mondo a spese dei nostri campioni nazionali.
È qui che tutto il sistema-Italia deve puntare fortemente. Perché i pomodorini e il know how sono autoctoni e non delocalizzabili, perché la cooperazione è molto forte nell’agroalimentare e lo può essere sempre di più; perché i russi o i francesi potranno pure acquistare le nostre belle aziende, ma il lavoro e i redditi rimarranno comunque qui; perché la nostra agricoltura ha ampi margini di miglioramento dei propri fatturati, se entra in connessione con un’industria di trasformazione intelligente e ben sviluppata.
Nicola Salvagnin – Agensir