Certamente farà piacere, al comparto, la cancellazione dell’Imu agricola promessa dal governo con la legge di stabilità. Meglio di un dito nell’occhio, per un settore che – come in quasi tutta Europa – non ha certo vita facile. Anche il calo dei costi del carburante ha dato il suo benefico effetto, mentre la stagione climatica non è stata inclemente. Magari hanno sofferto le colture a forte irrigazione (vedi il mais), ma per l’uva è stata una vendemmia che rimarrà negli annali, mentre l’olivo si rinfranca dopo un 2014 disastroso.
Il problema è un altro: coltivare bene o male non sta quasi più facendo la differenza, salvo il fatto che nel secondo caso non ci si può nemmeno lamentare di tutto il resto. Il fatto è che – qui come in Francia, per dire – la globalizzazione dei mercati è stata deleteria per un’attività che più legata alla terra e al luogo di produzione non si può. Significa che il tuo latte può essere ottimo e sano, ma non può competere con il fiume bianco che scende giù dal Brennero al 20-30% di costo in meno. Che le tue pesche possono essere perfette in pieno luglio, ma perdono la battaglia del mercato con la produzione spagnola che arriva su tir economicamente e occultamente finanziati dallo Stato iberico. Che comunque i costi logistici per trasportare pomodori bellissimi (e un filo insapori) dalle serre belghe e olandesi, rispetto a quelli siciliani, non sono paragonabili, se il mercato è quello del Nord.
Ma c’è dell’altro, che pesa molto di più. Quanti sono gli importatori-esportatori di ortofrutta in Italia? Duemila? Quanti quelli francesi? Meno di dieci. Perché lì c’è una grande distribuzione organizzata (nel senso letterale del termine) che fa il mercato. Qui in Italia solo un famoso consorzio melicolo trentino ha questa forza.
E quante le organizzazioni che rappresentano gli agricoltori nello Stivale? Alcune decine, contro l’unica esistente in Francia.
Va da sé che una politica “agricola” che veda coinvolte tutte le parti, in Italia è semplicemente impossibile. Solo per metterle assieme, queste parti (rappresentanze agricole, grande distribuzione, politica nazionale e locale), ci vorrebbe un tavolo più lungo del Po. Mentre Oltralpe basta un normale tavolo da ufficio attorno al quale il potere politico spieghi ai pochi grandi compratori degli ipermercati che, se non comprano prodotto nazionale, poi potrebbero avere molte difficoltà a livello burocratico, di autorizzazioni, di controlli, ecc… Una “moral suasion” efficacissima e utile per tutti: si acquista dai “propri” produttori, si distribuisce reddito sul territorio (e non in Turchia o Spagna o Italia) a lavoratori che poi avranno soldi per acquistare nei supermercati, per pagare tasse e contributi allo Stato…
Magari non è il massimo per il concetto di libero mercato; ma è il meglio per gli interessi di una nazione. Se poi in sede comunitaria si privilegiano – per logiche politiche anche condivisibili ma non economiche – i finanziamenti a qualsivoglia progetto presentato da Spagna, Portogallo e Grecia, allora ci si rende conto come troppe volte l’agricoltura italiana si senta come Davy Crockett sugli spalti di Fort Alamo, mentre guardava le truppe messicane posizionate ovunque.
Nicola Salvagnin