Le sanzioni economiche fanno male a chi le subisce, o a chi le fa? È un quesito abbondantemente sollevato dai media e dagli operatori economici dopo la visita del presidente russo Vladimir Putin in Italia. Un Putin che si è premurato di ricordare agli interlocutori economici e politici italiani che: avete perso un miliardo di giro d’affari con noi; si sono fermati tutti i vostri investimenti in terra russa; altri concorrenti hanno preso e prenderanno il vostro posto. Sottinteso: sono qui a parlarvi, le vostre sanzioni a noi fanno il solletico, a voi tanto male.
Vero. Quelle alla Russia, fortemente volute dagli Stati Uniti, si stanno rivelando un boomerang. Dovevano mettere in forte difficoltà Putin nei confronti della sua opinione pubblica per l’atteggiamento aggressivo dei russi nei confronti dell’Ucraina. Risultati: zero, e non si capisce perché continuare su una strada così fallimentare.
D’altronde le sanzioni economiche hanno una loro efficacia nei confronti di piccoli Paesi (vedi Cuba o Corea del Nord) o di piccole economie nel contesto mondiale (vedi Iran). Devono essere fatte da tutti e riguardare anzitutto le transazioni finanziarie. Ma si noti che il regime castrista è ancora lì dopo 55 anni; la satrapia coreana si fa un baffo della mancanza di Coca Cola e sopravvive da decenni grazie ai cinesi; con gli ayatollah iraniani ora l’Occidente non vede l’ora di collaborare per arginare la minaccia dell’Isis.
Insomma, non valgono a nulla se non a creare molte difficoltà ai popoli governati da dittatori e “cattivi” vari. Già non è particolarmente divertente vivere in Paesi dittatoriali o comunque con libertà limitate; figuriamoci dover fronteggiare inflazioni assassine, scaffali vuoti, mancanza di medicine o di ricambi per le fabbriche.
In Russia sta accadendo la stessa cosa. Anzitutto le sanzioni sono limitate: anche perché senza gas e petrolio russi, si va a carte quarantotto tutti assieme. Per questo si assiste alla beffa di merci Usa che crescono nel mercato ex sovietico (computer, smartphone) proprio perché non soggette a restrizioni; mentre le nostre rimangono bloccate ai confini, mandando in malora i produttori di frutta nazionali e gli esportatori di calzature e prodotti meccanici. Cosa analoga sta accadendo ai polacchi, che pure con i russi hanno il dente avvelenato.
Se non ci sono le nostre ciliegie, arrivano quelle turche; se le mele italiane non possono valicare i confini, allora vengono mandate in Serbia e da lì in Russia, in un ridicolo carosello fittizio che ha il solo scopo di agevolare i furbi e di far costare di più le merci. Se il made in Italy sparisce dagli scaffali moscoviti, questi si riempiranno di made in China. E come si fa a bloccare le ramificazioni russe a Cipro, in Olanda, a Londra? E se qualche russo venisse a proporsi per l’Ilva con un tir di soldi, che facciamo?
Siamo – quella europea e quella russa – due economie ormai strettamente interconnesse. Stiamo addirittura ragionando sull’adesione ad un trattato internazionale, il Ttip, che integrerebbe le economie americane ed europee, e con il termine “Europa” si sogna di inglobare anche la Russia. A quel punto la Cina si troverebbe assai sola. Ma intanto ci facciamo le sanzioni l’un contro l’altro. Non è con il blocco delle esportazioni di golden delicious italiane che si risolverà la crisi ucraina. Ad un certo punto conviene affidarsi alla politica e alla diplomazia – magari fatte con più intelligenza e meno dilettantismo – piuttosto che a strumenti vetusti e inutili di guerra commerciale.
Nicola Salvagnin